Giuseppe Lumaga, all'inizio
del '700, nel suo Teatro delle Nobiltà d'Europa scrive che i Coppola erano una
nobile ed antichissima famiglia che venne dalla Sicilia in Terra d'Otranto e che nel
secolo XV si stabilì a Gallipoli.
Abbiamo notizie di un Orsino Coppola che nel 1489 sposò la nobil donna gallipolina Laura Cuti dalla quale ebbe quattro figli: Tommaso, primicerio della Cattedrale e vicario del vescovo di Gallipoli Pellegro Cybo (1536-1576), Angelo, Nuzzo e Cola1. Giovan Battista De Tomasi, illustre giurista gallipolino dell'800, così ci dice: "La famiglia Coppola di Gallipoli nell'antico Salento é una di quelle, che và piena di gloria, per aver dato in varie stagioni alla repubblica delle arti, e in quella delle scienze parecchi soggetti di sommo valore"2. Vincenzo Dolce, notaio e sindaco di Gallipoli nel 1854, scrive: "Fra le famiglie patrizie di Gallipoli a buon diritto deve collocarsi quella di Coppola vuoi per le parentele di riguardo, vuoi per le cariche, che i suoi componenti hanno occupato, e per lettere e belle arti da essi esercitate, che li han resi sommi e famigerati tra le nostrane ed estere contrade (...). Questo ragguardevole casato ebbe Canonici e Dignità nella nostra Cattedrale, Dottori di Leggi e molti Sindaci"3. Giovanni Carlo fu vescovo di Muro Lucano dal 1643 al 1652. Ercole, vescovo di Nicotera nel 1651, morto nel 1656, scrisse Rivoluzioni politiche e molte opere letterarie andate perdute. Giacinto, nato nel 1642 e morto nel 1705, Decano e Tesoriere della Cattedrale di SantAgata, compose Plettro armonico, una raccolta di sonetti, madrigali, canzoni e idilli di genere religioso, amoroso, storico ed encomiastico in stile arcadico. Ricoprirono la carica di general sindaco, ufficio che nella antica città comportava speciali prerogative e responsabilità: Orsino Trajano (1611-12), Antonio (1632-33), Giovanni Andrea (il famoso pittore) (1639-40), Dionisio (1668-69), Giuseppe Francesco (1672-73 e 1687-88), Niccolò (1704-1705), Francesco (1721-22), Andrea (1727-28), Michelangelo (1739-40), Filippo (1749-50, 1760-61 e 1780-81), altro Francesco (1753-54)4. Nel 1713, Gabriele Carlo Antonio, figlio di Dionisio, dottore in Legge e cultore delle Scienze, concesse in enfiteusi ad alcuni contadini, in contrada Alizza, dei suoi terreni per costruirvi abitazioni, permettendo così la nascita del villaggio Villa Picciotti che, il 1° luglio 1873, grazie ad un decreto reale di V. Emanuele II, prese l'attuale nome di Alezio. Giovanni Andrea, il 19 ottobre 1887, fondò il glorioso giornale Spartaco che, per quasi un trentennio, combatté, in Gallipoli e nel Circondario, per l'emancipazione civile, intellettuale ed economica delle classi diseredate. Così descrive il loro scudo araldico il Dolce: "Due Leoni di oro rampanti in campo celeste che cercano ansiosamente lambire in una coppa anche d'oro È lo stemma di questa famiglia, stemma che dinota il desio di sempreppiù dissetarsi nel nappo della gloria e degli onori"5. Dagli scomparsi Niccolò Coppola e Assunta Leopizzi sono nati: Bruno, Giovanni (deceduto il 12 gennaio 1997), Carlo, Maruska, Lucio (deceduto il 1° agosto 1999) e Flavio. Nel 1599, quando a Gallipoli nacque Giovanni Carlo Coppola dal patrizio Leonardo6 e dalla nobil donna Giovanna Pepe, era sindaco Giovanni Abatizio e la diocesi era retta dal vescovo Vincenzo Capece (1595-1620), di nobile famiglia napoletana, che si distinse per dottrina e saggezza. La città faceva parte del Regno di Napoli che Filippo III, re di Spagna, governava per mezzo di un viceré. Essa godeva del titolo di città demaniale, non soggetta mai a feudatario, alle dipendenze dirette del Re. L'autorità regia si manifestava nella persona e nelle funzioni di un Governatore Regio il quale si limitava ad amministrare la giustizia ed a presiedere i Comizi in occasione dell'elezione del general sindaco, scelto tra i patrizi, che amministrava la Città assieme ad un Parlamento civico composto di 80 persone scelte tra le più colte ed onorate. Ad eccezione di qualche breve periodo di carestia7, tutti i ceti sociali vivevano nell'agiatezza, poiché Gallipoli era diventata, grazie al suo olio, l'emporio più importante del Mediterraneo. Decine di navi ogni giorno sostavano nel porto e caricavano il prezioso prodotto trasportandolo in ogni parte del mondo. Si doveva lavorare anche nei giorni festivi ed i gallipolini furono esonerati, su loro richiesta, dall'osservanza di santificare le feste dalle Bolle papali del 18 aprile 1581 e 28 febbraio 1590 emanate, rispettivamente, da Gregorio XIII e Sisto V ed indirizzate entrambe "Dilectis filiis Communitatis, et hominibus Gallipolitanis"8. Giovanni Carlo, sin dagli anni più teneri, manifestò una precoce e doppia vocazione alla vita sacerdotale ed all'arte poetica. Nella città natale, guidato dai monaci domenicani e francescani, compì con gran profitto i primi studi di greco, di latino, di retorica, di filosofia e teologia, abbracciando lo stato ecclesiastico. Nei salotti gallipolini iniziava a far sfoggio del suo estro poetico come improvvisatore, ostacolato in ciò dal padre. Nel gennaio del 1616, per realizzare le sue aspirazioni, senza il permesso paterno, si allontanò da Gallipoli ed approdò a Napoli, capitale del Regno, mentre era viceré il duca di Ossuna (26 giugno 1616 - 3 giugno 1620). Ma quale situazione sociale e politica trovò il Nostro nella capitale del Regno dopo aver abbandonato la sua città, che in quei tempi, in un territorio meridionale squassato dall'oppressione, dall'ingiustizia, dalla miseria e dal degrado, rappresentava ancora un'oasi felice dove il ceto dei patrizi era rimasto sostanzialmente austero, geloso custode della demanialità civica che garantiva l'indipendenza economica e la difesa dall'esoso neo-feudalesimo spagnolo e che riscuoteva ancora piena e completa la fiducia del popolo che viveva nell'agiatezza dovuta ai fiorenti traffici commerciali? La capitale era travagliata, come tutto il resto del territorio del vicereame, da un profondo malessere: i contrasti sociali erano drammatici. Sui circa 200 mila abitanti, che facevano della capitale la più popolosa città italiana, la grande maggioranza era formata da plebei, o lazzari, affamati e cenciosi che campavano di elemosine e di espedienti, facile esca di mire demagogiche ed eversive: questa plebe forniva i quadri alla malavita organizzata locale che nei primi anni del Seicento con la nascita della "camorra" si diede una vera e propria organizzazione gerarchica. Accanto a questo ceto sociale vivacchiava un popolo di bottegai, barcaioli, mulattieri, piccoli commercianti, artigiani e contadini. Il clero rappresentava una classe benestante e privilegiata: solo a Napoli erano presenti quasi 30 mila ecclesiastici; essi beneficiavano di immunità e privilegi e l'alto clero faceva sfoggio di ricchezze e di pompa e, non meno dei principi e dei baroni, era geloso delle proprie prerogative. La borghesia era composta di avvocati, magistrati e appaltatori d'imposte che servivano la Corte, godevano di un reddito decente e di qualche privilegio. La nobiltà contava un centinaio di principi, 150 duchi, 163 marchesi, alcune centinaia di conti ed un numero incalcolabile di baroni: essa era arrogante, prepotente, abulica, sorda ad ogni innovazione e si considerava sovrana assoluta nel suo feudo sentendosi al di sopra della legge. Ostentava titoli altisonanti cui non sempre facevano riscontro rendite adeguate, trattava dall'alto in basso le altre classi e dava, con la sua riottosità, parecchio filo da torcere ai viceré, la maggior parte dei quali, nel Regno, lasciarono di sé pessimo ricordo. Essi venivano dalle file della nobiltà castigliana, erano completamente digiuni di amministrazione, pensavano al loro tornaconto, ad arricchirsi e ad arricchire la Corona spagnola, vessando in maniera indecente i sudditi. Imponevano dogane, dazi, balzelli su ogni tipo di merce e, quando le tasse non bastavano a coprire le enormi spese di Corte ed a colmare i sempre crescenti disavanzi, ricorrevano ad esazioni straordinarie come i "donativi"9 o alla vendita ai baroni delle città demaniali10. Il giovane abatino, alto, robusto, di bell'aspetto, sprizzante simpatia da tutti i pori, buon conversatore, fu accolto nei salotti dell'aristocrazia partenopea e nei migliori ambienti culturali dove mise in mostra la sua grande cultura letteraria e filosofica e le sue ottime doti di poeta estemporaneo che gli procurarono numerosi attestati di ammirazione e stima. Ben presto divenne famoso: tutta Napoli ne parlava e tesseva le sue lodi fino a quando il viceré, duca d'Ossuna, gran mecenate, lo invitò a Corte a tenere un'Accademia di poesia estemporanea. Il giovane Coppola improvvisò su diversi argomenti che i numerosi presenti gli proposero: il suo verseggiare era così spontaneo e fluido che ricevette grandi applausi e fervide congratulazioni. Il viceré fu talmente impressionato della bellezza della sua vena poetica che lo abbracciò e lo invitò a vivere a Palazzo. Successivamente fu nominato poeta di corte con un lauto stipendio e fu onorato e rispettato dall'aristocrazia partenopea e spagnola. Egli, però, era insoddisfatto del suo impiego e della vita vacua ed insignificante che si svolgeva a corte. Aveva ben altre aspirazioni: dopo quattro anni chiese congedo dal suo benefattore, si ritirò ed iniziò a ricercare il vero senso della sua esistenza nella speculazione filosofica. In quel tempo nelle carceri di Castel dell'Ovo, dopo aver soggiornato a lungo nell'"orrida fossa" di Castel Sant'Elmo, si trovava il filosofo Tommaso Campanella, condannato al carcere a vita per eresia e per aver organizzato, nel Regno di Napoli, una congiura per l'instaurazione di una repubblica teocratica di cui egli sarebbe stato il legislatore ed il capo. Dal fondo della sua cella, lanciava appelli e consigli a tutti i re e i principi della terra, vaticinando l'imminente rinnovamento del mondo col ritorno di esso ad un'unica religione e ad un unico Stato. Si diceva convinto che solo la monarchia di Spagna potesse realizzare l'unificazione politica del genere umano. Giovanni Carlo, appena ventenne, influenzato dalle ardite teorie filosofico-religiose e dalla personalità estrosa ed intellettualmente contraddittoria del filosofo di Stilo, troncò ogni rapporto con la vita culturale e mondana partenopea, divenendone fervente discepolo e andandolo ad ascoltare, per circa cinque anni, nella sua cella dove al Campanella era stato accordato di ricevere le visite di amici e discepoli. Questa frequentazione rappresentò per il Nostro una lunga parentesi di pace dello spirito e di vero godimento intellettuale e ciò lo si deduce dal fatto che non intese abbandonare il suo maestro quando quest'ultimo, nel maggio del 1626, raggiunto da un altro ordine di arresto del tribunale dell'Inquisizione, venne trasferito a Roma nelle carceri del Santo Uffizio11. Non è dato sapere fino a che punto il Campanella influì sulla formazione letteraria e filosofica del giovane abate; certo è che non incrinò le sue convinzioni in materia di fede religiosa. Restano comunque senza risposta gli interrogativi che il critico letterario Gaudenzio Paganino si pose nella sua opera Chartae Palantes: "(...) apud Campanellam integrum quinquennium latere voluisti obscurus et velut sepultus, ut tandem clarus prodires atque inter viros doctos cum laude versari posses. Quas vero latebras cum ipso non pervasisti? quae mysteria non tentasti? ad quas meditationes mentem non vertisti?". Quando il Coppola approdò a Roma, al seguito di Tommaso Campanella, i Papi del Seicento, con il mecenatismo col quale emularono i loro predecessori del Rinascimento nella protezione degli artisti, avevano già dato inizio a quell'opera di trasformazione urbanistica ed architettonica della città che l'avrebbe portata a diventare la Roma moderna. Di questo tempo è il completamento della basilica di S. Pietro e la costruzione di quegli edifici e di quelle piazze monumentali, costituenti nei secoli il caratteristico volto di Roma papale. Se grande sviluppo ebbe l'arte, Roma non trascurava né le lettere né le scienze: per queste ultime basta ricordare che la prima accademia scientifica, madre ed esempio di tutte le successive, fu l'Accademia dei Lincei, fondata nella città eterna nel 1603. Il fasto e gli sperperi della corte papale formavano, però, un triste contrasto con la miseria dilagante nello Stato Pontificio e con lo sfascio dell'amministrazione. Spinti dalla necessità di circondarsi di persone fidate, i Pontefici, nel Seicento, si erano abbandonati alla pratica del così detto Piccolo Nepotismo che consisteva nell'innalzare alle più alte cariche ecclesiastiche i membri della propria famiglia, conferendo loro lucrose prebende e donativi di terre e beni, e affidando loro (Cardinali nipoti) l'amministrazione dello Stato che gestivano molto spesso in maniera inefficiente e corrotta portandolo così alla decadenza dal punto di vista economico e della sicurezza pubblica. Nella città eterna, governata dal munifico ed autoritario pontefice Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini), il Coppola continuò a stare vicino allo Stilese che, nonostante l'amicizia e la protezione del Papa, veniva continuamente vessato dall'Inquisizione. Egli completò i suoi studi ecclesiastici e si addottorò "in utroque iure". Anche qui esplose il suo genio poetico e per questo fu aggregato alle famose Accademie degli Arcadi e degli Infecondi che egli frequentò assiduamente. Conobbe Urbano VIII dal quale fu stimato ed onorato e poté contare sull'amicizia e protezione di alti prelati del Vaticano tra cui il cardinale Francesco Brancaccio, appartenente ad una nobile e ricchissima famiglia napoletana. Quando il Campanella, nel 1634, consigliato dal Pontefice, fu costretto ad abbandonare Roma e rifugiarsi a Parigi, dove fu accolto benevolmente da Luigi XIII e dal cardinale Richelieu, il Coppola si trasferì a Firenze presso la corte del granduca di Toscana, Ferdinando II dei Medici, al quale, in occasione del Capodanno del 1635, dedicò un sonetto augurale12 il cui manoscritto Ferdinando donò al famoso bibliofilo Antonio Magliabechi perché lo conservasse nella sua celebre libreria che successivamente costituì il primo nucleo della Biblioteca nazionale di Firenze. Il granduca non aveva la stoffa politica dei suoi grandi antenati: la diplomazia lo annoiava, era refrattario all'economia e detestava la guerra. Aveva sempre bisogno di denaro e spremette per bene i sudditi. Era però un mecenate generoso, amava il lusso, le feste e gli spettacoli all'aperto. Per non rinunziare ai divertimenti decise di dividere con i fratelli Mattia, Giovanni e Leopoldo gli affari di Stato. Predilesse i giovani efebi ma gli piacquero anche le donne e ciò fu motivo di continue liti con la granduchessa che, gelosissima, abbandonò il talamo nuziale e per diciott'anni non volle più avere relazioni col marito. Si dedicò, anche, all'agricoltura e chiamò a Firenze i migliori agronomi e botanici italiani ed europei con i quali introdusse nel granducato nuove piante e colture. Era anche molto sensibile all'arte: per suo merito le gallerie di Palazzo Pitti e gli Uffizi diventarono dei veri e propri musei. A Firenze, nel 1635, il Coppola, per i tipi del Nesti, pubblicò in due formati, in 4° e in 6°, il suo capolavoro, sotto il titolo Maria Concetta, un poema sacro in venti canti in ottave, che valse all'autore, da parte di Urbano VIII, il lusinghiero titolo di "Tasso sacro". Frutto di un lavoro di quasi dieci anni, il poema si apre con unintroduzione nella quale il poeta invoca la protezione della Vergine, seguita da un sonetto dedicato al cardinale Antonio Barberini, protettore, allora, della Casa di Loreto, e da una lettera con la quale comunica ai lettori largomento e la struttura dellopera che è intestata ad un titolo di privilegio, in quel periodo universalmente professato dalla Chiesa, anche se non ancora dogmaticamente definito, riguardante l'Immacolata Concezione della Vergine Maria. Nonostante il Coppola avesse fatto professione di una poetica tutta devozionale, secondo la quale "la Poesia, nata e cresciuta con la santa Profezia", aveva come oggetto naturale la tematica dogmatica, e nonostante l'opera avesse riscosso ampi consensi e giudizi lusinghieri da parte di illustri letterati ed insigni ecclesiastici, essa si attirò gli strali del SantUffizio che, nel 1636, la condannò e la mise allIndice13. Non è dato sapere ancora con certezza quanto questa condanna fosse stata motivata dalle trascorse affinità intellettuali e filosofiche con il Campanella e quanto da una vera e propria ambiguità teologica. Il De Tomasi annota che l'opera "fu proibita più per le superstizioni di quei tempi, che per le spiritose immagini poetiche, o per la mitologia con la quale alludevasi di quando in quando alla delicatezza dell'argomento"14. Una nuova edizione, opportunamente purgata dall'autore secondo le indicazioni del SantUffizio e di Innocenzo X, uscì, nel 1648, in Napoli, per i tipi di Onofrio Savio: in essa è presente la stessa introduzione delledizione del 1635, è abolito lavviso ai lettori ed il sonetto dedicato al cardinale Antonio Barberini, sostituito con altri due sonetti encomiastici dedicati "Al Serenissimo Principe D. Giovanni d'Austria", figlio naturale di Filippo IV, re di Spagna e di Napoli, che domò la rivolta di Masaniello, e "All'Eccellentissimo Conte d'Ognate, Viceré di Napoli". Inoltre, da un primo e fugace confronto con la prima edizione, si evince che alcuni Canti, nella seconda edizione, risultano mutilati di alcune ottave, altri, invece, arricchiti con delle nuove. Già con il Concilio di Trento, nella seconda metà del Cinquecento, si era verificato un rigoglioso fiorire del culto della Vergine che si era ancor di più rafforzato nel 1600 con la Controriforma che aveva prodotto una miriade di testi mariani, mistici ed ascetici. Occorre, però, attendere fino al 1854 per vedere definito da Pio IX il dogma dell'Immacolata Concezione ed il 1950, con Pio XII, sancito quello dell'Assunzione. E' stato, però, con il Concilio Vaticano II (1962-1965) che è nato con maggiore urgenza un "aggiornamento" della devozione alla Madonna che poggia su solide basi e parte da presupposti teologici approfonditi. Ne abbiamo l'esempio con la presentazione del "mistero" di Maria accanto a quello della Chiesa, con alla base il fondamento biblico che lo giustifica e lo "dimostra". Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza del capitolo VIII della Lumemn gentium, "magna charta" del "nuovo corso" della Mariologia, secondo la nuova impostazione conciliare. Il Concilio Vaticano II ha inserito Maria nella dinamica della Storia della salvezza, in quel mistero di Cristo e della Chiesa, "nascosto dai secoli in Dio e manifestato ai nostri giorni". La Bibbia diventa così la cadenza costante per una presentazione di Maria, nella sua fase di preparazione, nella sua realizzazione e nel suo compimento. Monsignor Weber, arcivescovo di Strasburgo, poté, così, dire che "Tutto ciò che si dice di Maria al di fuori della Scrittura è fragile" e Paolo VI, nella Marialis cultus, raccomandare "l'impronta biblica" al culto in onore della Vergine, e che esso a questo indirizzo generale della pietà cristiana "deve in modo particolare ispirarsi per acquistare nuovo vigore e sicuro giovamento". Maria è così diventata oggi uno dei temi più attuali nel dialogo ecumenico ed è stata ricollocata nella "sua sede naturale", voluta ed assegnatale da Dio e i richiami all'unione, in suo nome, sono e diventano molto più numerosi di quelli che favoriscono la divisione. Da un esame particolareggiato della seconda edizione dellopera del Coppola si evince che alcuni di questi concetti, maturati ed approfonditi in epoca moderna, sono presenti anche se non completamente sviluppati, nei venti Canti dove il poeta ha operato il superamento di una trattazione mariologica avulsa dal contesto teologico ed il recupero del contesto ecclesiologico come luogo in cui inserire Maria, il suo ruolo ed il suo significato. Il De Tomasi così scrive: "Piacque all'autore con questo lavoro dare un pubblico attestato della sua divozione verso la Vergine Immacolata, della quale imprese a tesser le laudi. Il soggetto di cui si tratta, gli spiritosi concetti, che l'adornano, le veneri dell'arti, che il fregiano, e la felice grandezza, con la quale si maneggiano i misteri altissimi di Maria, provano a colmo la pietà non meno, che il merito dell'autore. Opera grande, e riputata degna da dotti d'esser posta al pari coi poemi del Tasso, e dell'Ariosto, e che ammirata dagli sguardi dell'erudito Urbano VIII allora regnante, gli trasse di bocca quel detto onorevole per l'autore: 'Ecco il Tasso Sacro'"15. Il Melfi afferma che l'opera si presenta "come una complessa macchina allegorica con dichiarati intenti di edificazione e di promozione di un'accesa devozione mariana. Il tempo paradossalmente ridotto - egli continua - in cui è compresa l'azione del poema, è quello che corre dalla 'concezione del corpo' di Maria 'fino all'infusione dell'anima', ed è animato da una folta schiera di personaggi divini, diabolici, umani ed allegorici, in vario rapporto con la concezione di colei che è ritualmente rappresentata, al culmine del poema, attraverso la parafrasi della allegoria della donna apocalittica, che riprende prevedibilmente i canoni della più tradizionale iconografia mariana"16. Nell'Introduzione il poeta chiama a sua testimone l'Immacolata Concezione affermando che nel momento in cui si accinse a comporre il poema non fu "lusingato né da speranza di terreno riconoscimento, né da spirito di mondana ambitione" ma solo dal desiderio "di eccitare i Devoti con la gloria (del suo) Nome". Implora, poi, la sua alta protezione e chiede la concessione dei suoi favori, e non quelli di Clio o Euterpe, nel momento in cui si appresta a cantare le sue lodi. Il poema è popolato da una moltitudine di figure umane e mitologiche, divine e diaboliche: sopra tutte si elevano quelle della semplice e dolce Anna e del suo sposo, il saggio e virtuoso Gioacchino, ambedue molestati ed insidiati da Erode e dalle potenze infernali, ai quali Dio concede l'alto privilegio di generare Maria. Molto belle e suggestive sono le ottave 48-67 del Canto XI nelle quali è descritta la concezione del corpo di Maria da parte di Natura per ordine di Dio, e ancor più meravigliosi sono i versi dei Canti XII e XIII laddove avviene "l'infusione dell'anima" nel corpo già formato della Vergine, bellamente adornato dalle Grazie e dalle Virtù. Nei Canti finali Maria, accompagnata dall'"Angelica schiera", dalle Grazie e dalle Virtù, visita il Paradiso dove ammira l'opera divina del Redentore, i successi della Chiesa con i suoi Martiri e Santi, la Fede e le sue opere, l'origine e la bellezza dell'Universo, e stigmatizza l'opera distruttrice del Drago che ella calpesterà. Nella "Schiera divina" è presente anche la Pace che il Nostro invoca (Canto XIV, ottave 19-20)17 perché scenda sulla terra per spegnere gli incendi che devastano l'Europa e l'Italia nella Guerra dei Trent'anni. Anche se il Coppola non andò esente dall'ampollosa vacuità del barocco, allora imperante, nel suo poema molte volte tocca i vertici sublimi della vera poesia specie nel momento in cui l'argomento si fa più impegnativo. Tutto il poema è pervaso da elementi magici e soprannaturali che acquistano verosimiglianza in un'ottica cristiana ; e proprio nell'universo mentale del cristiano angeli e diavoli hanno da sempre credibilità e in tale direzione, nell'opera, si sviluppa l'invenzione del poeta che risulta nello stesso tempo credibile e suggestiva. Le sue ottave sono continuamente alla ricerca della solennità attraverso forme classiche e dantesche. Il Coppola, sorto proprio nel periodo di transizione tra XVI e XVII secolo, è vicino a quel gruppo di poeti del 500 che rivestono di forme classiche soggetti religiosi. Nel suo poema compaiono molti episodi di avvenimenti sacri presenti nel De partu Virginis di Jacopo Sannazzaro, nella Cristiade di Marco Girolamo Vida, nelle Lagrime di San Pietro di Luigi Tansillo, nellUmanità del Figliuolo di Dio e nellAtto di Purità di Teofilo Folengo. Le opere, però, che ha sempre presenti durante la composizione del suo Maria Concetta sono le Sacre Scritture e la Gerusalemme Liberata del Tasso: della prima riveste di bella e nobile forma i ricordi tanto storici quanto dogmatici, ravvivandoli, spesso, con graziose similitudini che danno ai versi una particolare musicalità; dalla seconda trae unelocuzione eletta ed una vivace plasticità il cui splendore, a stento, viene offuscato dalle nebbie del barocco secentista. Sul piano stilistico, l'autore punta al sublime attraverso la rinunzia ad ogni effetto comico; si serve spesso dellantitesi, artifizio retorico usato a piene mani da molti poeti del 600 per far colpo sul lettore e per mascherare, molte volte, il loro vuoto interiore, ma che nel Nostro assume un significato ed una dimensione diversa dando una luce ed un indiscreto bagliore alla magica fantasmagoria di molte sue ottave. Egli, poi, nei momenti di maggiore commozione e lirismo usa lenjambement, figura metrica, che come dice il Tasso, rende lo stile ancor più "magnifico e sublime". Il granduca Ferdinando II, "sorpreso dalla sublimità e felicità de' suoi versi"18, lo volle come suo poeta di corte, assegnandogli una ricca pensione ed ospitandolo nel fastoso Palazzo Pitti. Il poeta, in occasione delle nozze del granduca con la giovanissima Vittoria della Rovere, principessa di Urbino, scrisse, in soli sette giorni, nel 1637, una favola in versi per musica, da rappresentare in un teatro all'aperto nel cortile dell'Ammannati di Palazzo Pitti, dal titolo Le Nozze degli Dei, pubblicata a Firenze, nel 1637, da Amadore Mazzi e Filippo Landi. Per questo lavoro il Coppola riscosse grande notorietà non solo tra gli intellettuali ma anche tra la gente comune a tal punto da far dire al fiorentino Gaudenzio Paganino, noto critico letterario dell'epoca, chiudendo il suo "Excursus in laudem Io(annis) Caroli Coppulae eximi poetae": "(...) jam Florentiae ostenderis digito praetereuntium: de te ubique multus est sermo. In Aula extolleris, in Academiis commendaris, in coetu eruditorum celebraris"19. Egli ben figurò affianco ai famosi poeti fiorentini, Michelangelo Buonarroti il giovane, Ottavio Rinuccini e Giulio Rospigliosi che in quegli anni erano, in Italia, i più affermati scrittori di favole e drammi messi in musica dagli altrettanto noti musicisti Jacopo Peri, Giulio Caccini e Claudio Monteverdi che contribuirono all'affermazione del melodramma che entrò definitivamente e pienamente nel circolo dell'arte nostra e che iniziò ad essere rappresentato nei teatri pubblici che numerosi stavano sorgendo nel nostro Paese e in tutta Europa. Già alla fine del '500 la Camerata dei Bardi ed i Medici, con Ferdinando I, avvalendosi di una nutrita schiera di artisti, poeti, scenografi, coreografi e musicisti, avevano dato l'impulso decisivo al nascere del melodramma. L'intento del Coppola, nelle vesti di poeta di corte, è essenzialmente encomiastico e celebrativo: egli fa ricorso "a tutta la sua cultura classica e mitologica per costruire una lunga trama di azione scenica sull'intreccio delle vicende nuziali di quattro coppie di divinità classiche. La 'favola' prende, infatti, l'avvio da quando Giove decide di dare moglie agli dei, ma le sue scelte non sono condivise, dando luogo a proteste e piccole guerre, poi naturalmente risolte"20. Egli evoca gli dei come interpreti delle azioni umane e guida ed aiuto degli uomini. La linea delle vicende ed il tono delle parole si corrispondono in una chiarezza continua: il rapporto tra coro ed avvenimenti, tra le parole che esprimono sentimenti e le parole che esprimono fatti è calcolato con lucida misura. L'opera, dopo essere stata sottoposta, nel gennaio 1637, con esito assai lusinghiero, al giudizio di Galileo Galilei (caro amico del Nostro)21, fu posta rapidamente in musica da cinque compositori fiorentini, coordinati da Ferdinando Sarcinelli. L'allestimento scenografico venne affidato al famoso Alfonso Parigi, noto scenografo del tempo, che dovette affrontare grandi difficoltà avendo il granduca Ferdinando II espresso il desiderio di trasformare il cortile dell'Ammannati di Palazzi Pitti, che immette al famoso giardino di Boboli, in un teatro all'aperto. Fu in questa festosa cornice architettonica rinascimentale che la sera dell'8 luglio 1637, col concorso di 150 musici, fu rappresentata la "favola" del Coppola per la quale fu messo in opera tutto un apparato di "macchine" teatrali che avevano lo scopo di creare visioni di mondi terrestri, infernali e celestiali popolati da una moltitudine di personaggi mitologici. Intervenne anche il coreografo fiorentino Agnolo Ricci che arricchì le scene con fastosi e sofisticati balletti. Nella "Relazione delle Nozze degli Dei", stampata subito dopo "la prima" così si esprime il critico Francesco Rondinelli: "Riuscì mirabile la squisitezza de' balli per la loro varietà, e per il numero dei Cavalieri che ballavano. Dilettò grandemente l'aggiustatezza delle musiche facili nel recitativo, armoniose nei cori, leggiadre nell'ariette e fu degna di considerazione la quantità delle donne, che tutte eccellenti, oltre la signora Paola e la signora Settimia (celebri soprani), cantarono a questa festa con gran lode, come ancora il non c'essere intervenuti musici forestieri, se non solo quelli che da gran tempo in qua ricevono stipendio da S.A. Ed in somma gli abiti oltre ogni credere ricchi e appropriati a' personaggi, le spesse mutazioni di scena, le macchine che quasi di continuo per quella si rigiravano mostrando perfettamente quanto oggidì possi far l'arte, cavarono questa festa dal numero delle ordinarie"22. Nonostante gli invidiabili successi ed i grandi onori, il Coppola provava una grande insoddisfazione: non era contento della vita di corte e di piegare il suo genio poetico all'adulazione. In lui affiorava prepotentemente il bisogno di curare l'altra sua vocazione, quella religiosa, che gli avrebbe permesso di dedicarsi ad una missione più alta della vita, quella di diffondere tra la gente il messaggio evangelico. Questo desiderio fu esaudito per intercessione del suo amico, cardinale Brancaccio, e per volontà di Urbano VIII che lo nominò, nel febbraio del 1640, arciprete della collegiata di S. Michele Arcangelo di Terlizzi23. In questa città trovò la Chiesa locale in crisi a causa di un acuto conflitto giurisdizionale in atto tra il clero di Terlizzi e il vescovo di Giovinazzo, Carlo Maranta. Il nuovo arciprete, quando giunse nella città, era all'oscuro della difficile situazione, delle polemiche e dei torbidi avvenimenti che si erano verificati negli ultimi anni. L'impatto con la realtà locale fu traumatico: ne rimase deluso e stordito, mentre gli si veniva prospettando l'incognita di una difficile permanenza e di futuri dissensi e conflitti con il vescovo di Giovinazzo. Infatti, durante i quasi tre anni del suo incarico, si verificarono numerosi scontri e ricorsi che non approdarono a niente e che coinvolsero la Sacra Rota ed il Consiglio Collaterale di Napoli, fino a quando il Coppola, stanco, non maturò l'idea di rinunciare all'arciprelatura. Il 18 maggio 1643, Urbano VIII, anticipando la sua decisione, lo destinò alla sede vescovile di Muro Lucano, dopo aver trasferito il suo predecessore Clemente Confetti a quella di Acerno24. La diocesi murana comprendeva una decina di altri paesi e disponeva di una mensa vescovile molto povera che doveva corrispondere annualmente una pensione di duecento ducati ed una tassa di trenta fiorini e mezzo alla Curia romana25. Il nuovo vescovo, nel dicembre del 1645, celebrò un Sinodo diocesano attraverso gli atti del quale possiamo capire l'esatta dimensione della sua figura di vescovo e pastore. Il Sinodo rappresentò una vera e propria inchiesta sulla situazione della diocesi con particolare riferimento alla vita religiosa e morale della popolazione e del clero. Grande desiderio del Coppola era quello di avviare un concreto processo di tridentinizzazione nella sua diocesi teso a salvaguardare la purezza della verità della fede. Ben presto si era accorto che la sua comunità diocesana, di pretta estrazione contadina e in permanente stato di miseria e sottosviluppo, praticava una religiosità che si rivelava come "un misto di magia e superstizione attraverso un culto misterico della natura e un devozionismo di pura matrice rurale"26: tutto ciò egli condannò aspramente nel capitolo "De sortilegiis et maleficiis". Constatò, inoltre, con grande dolore, come tra il suo popolo erano diffusi svariati vizi come l'usura, la bestemmia, la vendetta privata con frequenti omicidi, la pratica degli aborti, l'alterazione dei testamenti, l'omertà e la protezione dei briganti. Riscontrò, poi, molti abusi da parte dell'Università (Comune) e del clero e decise di comminare censure canoniche e pene in denaro e carcerarie per i trasgressori. Il Capitolo della Cattedrale e l'Università che erano i principali destinatari dei suoi decreti si opposero aspramente: i rapporti rimasero a lungo tesi fino a sfociare in una vertenza davanti al tribunale del metropolita di Conza di cui la diocesi murana era suffraganea. Il Coppola, così, vedeva, con grande amarezza, frustrati i suoi sforzi e le sue coraggiose iniziative pastorali, continuamente osteggiate e bloccate dalla ostilità delle strutture locali27. L'unica consolazione per il Nostro restava quella di poter curare la sua musa poetica. Egli portò a termine l'impegno che aveva assunto con Ferdinando II, prima di andar via da Firenze: completò il poema Il Cosmo o vero l'Italia Trionfante che il granduca gli aveva commissionato e che fu stampato a Firenze, nel 1650, nella Stamperia granducale in due versioni, in folio e in 4°. L'opera, composta di venti canti in ottave, dedicata a Ferdinando II, ha come materia un leggendario episodio della difesa dell'Italia dai barbari Goti, al tempo dell'imperatore Onorio, per opera di Cosmo o Cosimo, discendente di Perseo e mitico capostipite della famiglia dei Medici. Il poeta prende come modello la Gerusalemme Liberata del Tasso, lOrlando Furioso dellAriosto e LItalia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino e come questultimo si sforza, riuscendovi in gran parte, ad essere coerente con i canoni aristotelici della verosimiglianza dellargomento e dellunità di azione. Il Melfi nel suo Dizionario biografico degli Italiani afferma che il Coppola nel Cosmo "tenta la conciliazione tra la funzione encomiastico-cortigiana, che dominava nelle Nozze, e la propria vocazione di cristiano e religioso poeta, trattando di una guerra in qualche modo 'santa' e traendo dal suo soggetto tutti i possibili spunti di edificazione morale". In questo poema, che non è solo sacro ma anche storico-cavalleresco, è narrata la lotta di due stirpi, il contrasto di due religioni, di due idee, e mentre lOrlando rappresenta questa lotta nella sua idealità generale, senza tempo e senza luogo, senza alcuna determinazione storica, il Cosmo, come la Gerusalemme, rappresenta i tempi, i luoghi ed i personaggi determinati storicamente. Nellopera che "Porta anco in fronte il titolo di 'Italia Trionfante' per rendersi più caro all'Italia tutta", il Coppola ha inteso celebrare la famiglia dei Medici (Cosmo sta per Cosimo dei Medici), affermando, nell'introduzione, come "Cosmo (sia) venuto da Atene in Toscana, e che da Perseo habbia la Serenissima Casa tratta la prima origine, figurando, che i Globi della sua antichissima insegna fussero i Pomi d'oro colti nel Giardino delle Esperidi, all'hora, che egli passò nella Mauritania, già che da' Latini egualmente son detti Aurea Mala, e Mala Medica", e che il "Cognome della Serenissima Casa" derivava "dalla voce Meddix, che in lingua Osca significa(va) supremi Magistrati, (...) che co'l nome di Lucumoni dopo Mezzenzio, il quale fù l'ultimo de' Re scacciati dalla Toscana, governavano à vicenda le dodici prime Città di questa Provincia con autorità regia; (...)". Il "fiero Scita" Radagasio, re dei Goti, nel 405 d.C., con duecentomila barbari discese in Italia e "quel secolo infelice (vide) per sua maggior calamità, sepolte trà 'l sangue, e trà 'l ferro perdersi le Scienze, e l'arti migliori, e cangiate in spade le penne, (...)"28. Onorio, "ch'allora in Ravenna reggeva l'Imperio d'Occidente", affida le sorti dell'Italia al "Duce della Milizia Toscana", Cosmo dei Medici, diletto figlio della "Beata Giuliana vedova di Lorenzo, la quale per le prerogative de' natali, e per lo credito della pietà, fù una delle più rinomate Donne di quei tempi"29. In quest'opera il Coppola si scopre non solo poeta religioso ed eroico ma anche poeta romanzesco e mentre il tono eroico e religioso è spesso venato di calore appassionato, il tono romanzesco si esprime, nei suoi versi, con una larghezza e solennità di canto. Nell'incontro fra i due toni e nella loro attrazione reciproca lo stile del poeta trova la propria omogeneità; all'opposto nel forzarli, talvolta, oltre il giusto tradisce un vizio di artificiosità e freddezza. L'opera non è esente da gonfiezze, abnormità, da eccessi stilistici specie quando il Nostro si cimenta nella minuziosa descrizione dei paesaggi, invece la vera poesia esplode negli episodi più umani e drammatici e nei momenti idilliaci. Molte sono le storie romanzesche nel poema: tra le più interessanti quelle di Rosmonda, di Doralda, di Enrico, eroi pagani, e di Lorenzo, guerriero valoroso, fratello di Cosmo. Rosmonda ama non riamata Lorenzo; Doralda ama non riamata Enrico; Enrico ama non riamato Rosmonda; Lorenzo ama non riamato Doralda. In queste storie non c'è l'amore felice, scambievole, concorde, le "nozze avventurose" che restano sempre un vagheggiamento fantastico, ma c'è l'amore tragico, custodito da un geloso pudore, l'amore insoddisfatto, bramoso di godimenti e dissolvimento, l'amore non corrisposto che provoca sofferenza, tormento, alimentandosi di ricordi e di sogni non realizzabili. Il Coppola diviene così il poeta dei caduti, dei vinti: in amore come in battaglia. Caduti e vinti sono anche il re sciita Radagasio, padre di Enrico, ed il valoroso guerriero pagano Ormando, fratello di Doralda. Su tutti questi si staglia la figura del saggio, religioso e coraggioso Cosmo, eroe cristiano del poema. Momento di alta ispirazione poetica amorosa è il commovente episodio, nel Canto XVIII, della morte di Rosmonda ed Enrico: possente e terrificante è il grido di dolore del principe nel momento in cui si accorge che, per errore, ha trafitto con la lancia la sua amata; allora il grido si effonde per tutto il cosmo e si trasforma in amore universale che è l'indice della più genuina poesia. Rosmonda e Doralda, eroine pagane, rappresentano le due figure di più alta ispirazione tragica: esse vengono in primo piano e messe in maggiore risalto nel momento della loro morte quando si realizza la loro umanizzazione che, a poco a poco, le riporta ad essere delicate e fragili donne. La tragicità dell'evento allora si tinge di abbandono musicale che dà un accento melodico alla poesia dell'autore ed un accento elegiaco colora la fine delle due eroine che hanno in sè un martirio che esclude ogni residuo di passione amorosa. Non poteva poi mancare, nel poema, la testimonianza del grande amore del poeta verso la sua cara "patria", Gallipoli, che egli esalta nei versi delle ottave 9, 10 e 11 del IV Canto, quando descrive la partecipazione del popolo che abitava la penisola salentina, guidato dal nobil condottiero Stefano Pepe, suo avo materno, alla santa guerra contro il barbaro invasore:
Con i ventidue canti, in endecasillabi e settenari, del poema, di natura fortemente pedagogica e formativa, La verità smarrita, o vero il Filosofo illuminato, dedicato al pontefice Innocenzo X e pubblicato a Firenze, in 4°, per i tipi di Amador Massi, il poeta torna ad illustrare allegoricamente la dottrina della dogmatica cattolica senza più alcun compromesso con la scienza profana. Qui il Nostro, servendosi degli strumenti forniti dall'esperienza scolastica e dalla tradizione apologetica cattolica, personifica la Fede che guida il Filosofo al possesso della Sapienza. Egli prima della sua morte che lo colse giovane, ad appena cinquantadue anni, alla fine di gennaio del 1652, nella tranquilla solitudine montana di Muro Lucano, volle fare, nella prefazione alla sua ultima opera, un consuntivo della sua produzione letteraria ponendo l'accento sui principi ispiratori dei suoi componimenti poetici che, in perfetta sintonia con l'insegnamento della Chiesa ed in chiave eminentemente educativa, con le loro invenzioni fantasiose, tendevano a risvegliare nei cuori umani la devozione della Vergine Maria. |