Nicola Patitari
Poeta dialettale gallipolino dell'800
(1852-1898)

 

Nicola Patitari è il più geniale ed importante poeta dialettale gallipolino del secolo XIX. Egli nacque il 13 novembre 1852 a Villa Picciotti 1, in quel tempo frazione di Gallipoli, nella villa di campagna di proprietà della famiglia, dove i Patitari erano soliti villeggiare, da Giuseppe (sindaco di Gallipoli nel 1831-32) e da Adelaide Pugliese. Visse a Gallipoli, fino alla sua morte, nel palazzo situato nell'isolato della Dogana (oggi via Patitari n.29). Il 20 luglio 1874 2 sposò María Anna, figlia dello zio Francesco Patitari e della nobil donna napoletana Adelaide Pennassilico, dalla quale ebbe tre figli: Francesco, Beatrice e Noemi.
Discendeva da antichissima e nobile famiglia di origine ellenica che si stabilì a Gallipoli durante il periodo delle Crociate
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Notizie certe le abbiamo solo dal 1484 quando Guglielmo Patitari partecipò all'eroica difesa della città assalita, il 17-18-19 maggio, dai Veneziani: egli divenne, poi, sindaco nel 1490. Dal XV secolo alla fine del XIX i Patitari diedero alla città numerosi sindaci, dignità ecclesiastiche, monaci in odore di santità, eroi e poeti. Godettero del diritto di patronato sull'altare dedicato a S. Giovanni Battista nella vecchia Cattedrale di S. Agata fino al 1629 e, successivamente, nella nuova, su quello dedicato all'Incoronazione di Maria, la cui tela è opera del Coppola. Dopo il 1658, nella stessa chiesa, ebbero anche il sepolcro che si trova davanti all'altare. Il loro stemma è somigliante a quello della famiglia Specolizzi: scudo di colore azzurro con banda d'argento orlata di rosso, caricato di tre colombe nere alludenti alle tre luttuose giornate dell'assedio veneziano
4 della quale fu segretario perpetuo e per la quale compilò lo Statuto ed il Regolamento che furono approvati il 25 dicembre 1866. Nel 1500 Alvise, Lupo, Nunzio, Ragonese e Santo Patitari furono valenti maestri fonditori di campane e cannoni e proprietari di fiorenti ed avviate botteghe artigiane 5.
S'imparentarono con altre nobili casate gallipoline e salentine: i Camaldari, i Cuti, i D'Acugna, i De Tomasi, i Gorgoni, i Mazzuci, i Muzi, i Sansonetto, gli Specolizzi ed i Venneri.
Nel 1800 vissero e si distinsero i cinque fratelli Carlo, Sebastiano, Giuseppe, Salvatore e Francesco, prima carbonari e poi mazziniani, perseguitati, incarcerati e spogliati di tutti i loro averi dai Borbone. I più famosi furono Salvatore e Francesco che militarono nell'esercito bonapartista e murattiano ricevendo numerosi encomi ed onorificenze. Salvatore, esperto spadaccino e molto bello d'aspetto, fu follemente amato dalla regina Maria Isabella, moglie di Francesco I di Borbone, dalla quale ricevette in dono un suo ritratto, in miniatura, ed una treccetta di capelli. Francesco prese eroica parte ai moti napoletani del 1820-21 e fu condannato a 25 anni di carcere ed alla confisca di tutti gli averi: dopo la rivoluzione del 1848, soffrì di nuovo il carcere assieme a numerosi altri patrioti gallipolini tra cui Epaminonda Valentino ed Emanuele Barba
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Nicola Patitari trascorse la sua infanzia, in un periodo denso di importanti avvenimenti politici, nel grande palazzo ove vivevano tutti i Patitari. Il 9 gennaio 1856 vide morire l'amato zio Francesco dal quale mutuò il coraggio, la fierezza d'animo, l'amore per la patria e per le classi derelitte, alle quali fu sempre vicino, e dopo qualche anno, nel 1860, gli mori anche il padre.
Erano gli anni in cui venivano cacciati i Borbone dal Regno delle Due Sicilie e si iniziava il processo di unificazione dell'Italia. Il Nostro in quei giorni aveva visto i muri della città tappezzati di numerosi manifesti tricolori ed aveva udito per la prima volta le note dell'Inno di Garibaldi, mentre l'Amministrazione civica filo-borbonica veniva sostituita con una nuova di tendenze liberali ed unitarie che elesse sindaco Nicola Massa. Gallipoli partecipava con entusiasmo a questi eventi: aveva accolto con giubilo, il 7 settembre del 1860, un manipolo di garibaldini, sbarcati a Gallipoli, al comando del colonnello Giuseppe Garcea, per proclamare nel Salento la caduta del regime borbonico e, poco tempo dopo, il Consiglio comunale, con a capo il sindaco Giacomo Papaleo, a nome della cittadinanza aveva inviato a Garibaldi, a Vittorio Emanuele ed al Luogotenente, generale Cialdini, tre messaggi augurali
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Dopo l'Unità, a Gallipoli, erano nati alcuni partiti politici che operavano attivamente: quello filo-borbonico, guidato dal monaco cappuccino Padre Giovanbattista Di Mesagne, che sobillava continuamente il popolo contro il regime unitario e i liberali locali, approfittando delle precarie condizioni economiche delle classi meno abbienti travagliate dalla miseria e dalla fame a causa delle ricorrenti crisi economiche che in quel periodo si abbatterono sulla nostra città
8; quello conservatore al quale aderivano liberali di fede monarchica che avevano dato vita all' Associazione Costituzionale Unitaria, presieduta da Nicola Massa, e che espresse per molti anni la maggioranza nell'Amministrazione civica: quello repubblicano a capo del quale c'erano Emanuele Barba ed Eugenio Rossi. Quest'ultimo partito era quello che teneva vivo in Gallipoli il credo mazziniano: si era schierato dalla parte delle classi più umili ed aveva fondato, ad opera del Barba, la Società operaia di mutuo soccorso ed istruzione per il miglioramento materiale ed intellettuale degli operai e dei cittadini meno abbienti.
Molti giovani, tra cui il nostro Patitari, aderirono con entusiasmo a questa formazione politica e si prodigarono con abnegazione per alleviare le sofferenze della gente più bisognosa. Grazie alle continue sollecitazioni ed insistenze dei repubblicani, l'Amministrazione comunale istituì scuole serali e festive per adulti frequentate da bottai e facchini del porto (bastagi) che erano le categorie di lavoratori più numerose e, in quel periodo, più bisognose di istruzione. Il Patitari, dalle pagine del suo giornale, Il Lucifero, appoggiò queste iniziative e fustigò, per due anni, nel 1881 e nel 1882, la politica degli amministratori locali che si distinguevano per arroganza, corruzione ed insensibilità per i gravi problemi occupazionali che affliggevano la maggioranza della popolazione.
Egli fece parte dell' «Associazione democratica elettorale, sorta agli inizi del 1880, che aggregava tutti i repubblicani, i radicali, gli anarchici e gli ex garibaldini di Gallipoli e che, nel 1882, con il nome di Partito Democratico Repubblicano, si presentò per la prima volta alle elezioni politiche per sostenere la candidatura di Matteo Renato Imbriani Poerio e, successivamente, alle varie tornate delle elezioni amministrative per contendere al Partito Conservatore la gestione della cosa pubblica. Conobbe e fu amico di Antonietta De Pace
9 e di Felice Cavallotti. Alla prima dedicò, nel 1892, il suo primo volumetto di poesie: del secondo, nel 1894, tradusse in dialetto Il Cantico dei Cantici.
Fu membro della Congregazione della Carità che gestiva l'Ospedale civico, il Ricovero di mendicità e vecchiaia e il Conservatorio di S. Luigi: fu consigliere comunale, eletto nelle liste del Partito Democratico Repubblicano, durante il sindacato di Stanislao Senape e, successivamente, del fratello Luigi, negli anni 1890 e 1891. Si dismise da consigliere nel giugno del 1891 per divergenze di carattere ideologico e per profondi dissensi sulle modalità di gestione della cosa pubblica da parte della maggioranza repubblicana
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Si allontanò dalla politica attiva a malincuore e, stando sempre vicino alle classi più umili, iniziò a lanciare i suoi strali dalle colonne del giornale Mamma Sarena, diretto dal suo caro amico Ernesto Barba, contro la politica poco limpida di alcuni esponenti locali repubblicani che si proclamavano, indebitamente, difensori e propugnatori delle giuste cause delle masse operaie gallipoline.
Nel gennaio del 1898, assisté con animo addolorato alla rivolta del popolo gallipolino, che chiedeva pane e lavoro, contro l'Amministrazione comunale, retta da Giovanni Ravenna, e si prodigò nell'opera di pacificazione degli animi
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Improvvisamente, la mattina del 18 dicembre del 1898, fu stroncato da un infarto lasciando nello sgomento e nel dolore tutti coloro che lo stimavano e lo amavano. Lo Spartaco del 25 dicembre del 1898 così scriveva: «Gallipoli per la morte di Nicola Patitari perde il suo poeta in vernacolo che tanto precisamente sapeva indovinare e rendere il pensiero ed il sentimento del suo popolo»
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Nicola Patitari, più che per la sua attività politica e giornalistica, fu conosciuto ed apprezzato per il suo genio poetico. Numerosi suoi componimenti furono pubblicati, con lo pseudonimo di Ippazio Tari, sullo Spartaco e su Mamma Sarena. Nel 1892 uscì un volumetto con 23 poesie
13, dedicato ad Antonietta De Pace, contenente nell'introduzione le impressioni di Stanislao Senape, già sindaco di Gallipoli. Un secondo libro con 33 poesie 14  fu dato alle stampe nel gennaio del 1898: nella prefazione era riportata una lettera del Duca Sigismondo Castromedíano, illustre letterato e patriota salentino, nella quale erano messe in evidenza l'originalità e la spontaneità della poesia del Patitari.
I suoi versi hanno il diritto di comparire accanto alla migliore produzione poetica dialettale italiana. Nella sua arte c'è l'adesione commossa e riguardosa alle passioni elementari del popolo verso il quale manifestò sempre un atteggiamento di dedizione e grande solidarietà. Tutti i diseredati, gli oppressi sono drammaticamente innalzati da quel clima storico di ingiustizia e di miseria che egli conobbe da vicino e che sperimentò sulla propria pelle: mentre i ricchi, i potenti, specie se arroganti, sono disprezzati, condannati e respinti con forza nella sfera negativa del ridicolo.
Egli scrisse in dialetto poiché era la lingua che il suo popolo usava per comunicare e per esprimere tutta l'intensità dei suoi sentimenti: una lingua viva, musicale e fiorita, la lingua della sua anima e insieme, la lingua illustre che esprimeva la complessa vitalità di un mondo storicamente arretrato al quale era intimamente legato.
La sua produzione poetica, molta della quale è andata perduta, fu caratterizzata da una sorta di eclettismo. Trattò i temi di moda della letteratura dell'epoca: quelli cari al verismo, alla scapigliatura baudelairiana, alla protesta sociale, alla poesia idilliaca e veristico-umoristica. I suoi versi che furono ora patetici, ora ironici, ora sarcastici, ora scettici, ora epicurei, ora erotici, ora sentimentali, rispecchiavano coerentemente il suo carattere e la sua variegata natura.
Il suo genio poetico toccherà i vertici più alti quando scoprirà e descriverà il mondo dei «vinti», un mondo fatto di umanità oppressa e diseredata, un mondo grezzo ed inedito permeato di elementari e vigorose passioni, vittima di un malessere sociale al quale occorreva porre rimedio. Era sufficiente che egli si soffermasse sulle scene della vita, sulle situazioni tolte dal vero, sugli eventi funesti e sulle tragedie che travagliavano la triste esistenza della povera gente e subito le sue osservazioni si traducevano in ritmi e strofe armoniose. Allora si avverava il miracolo dell'arte sua che era di sentire e far sentire sotto tanta miseria fisica e spirituale un tremare nascosto di poesia che era tutt'uno con l'amore devoto verso il suo popolo. Ed è il caso dei componimenti La mujiere de lu piscatore, Piccinnu mortu e La canzone de la Stralunata.
Nella maggior parte dei suoi componimenti egli prende come oggetto di rappresentazione temi e cadenze popolari consuete, rinnovandole con una grazia leggera, una freschezza elementare e limpida di sentimento, senza intrusioni intellettualistiche. Rappresenta, allora, quadretti della vita popolare di ogni giorno, con colorito realistico e pittoresco: l'eterna commedia dell'amore, lo scenario incantato della sua città col suo mare turchino, i suoi cieli limpidi e le calme notti lunari, lo scorrere delle stagioni, i paesaggi campestri con le loro creature.
Il suo eclettismo lo portò anche a cimentarsi nella felice traduzione in vernacolo del noto componimento Il canto dell'odio di Lorenzo Stecchetti. La traduzione fu così ben riuscita da far dire al dotto letterato Domenico Franco che la copia aveva superato l'originale.
Il Patitari scrisse anche quattro brevi commedie in dialetto. La prima, una farsa, in un unico atto dal titolo Secolo XIX, la compose nel 1889. La seconda, La linfa del Prof. Hoch, uno scherzo comico in due atti, vide la luce nel 1890, ed avrà una seconda e definitiva stesura nel 1891. La terza la scrisse anche nel 1890 ed ebbe come titolo La serva o il marito ingenuo che nel 1891 divenne Le domestiche, un vaudeville in due atti. Infine, nel 1894, compose Serra vecchia nu sserra cchiui, commedia popolare in due atti, che è la più briosa e movimentata, ricca di imprevisti e di situazioni comiche. Nel 1892 aveva tradotto in dialetto gallipolino Il Cantico dei Cantici, uno scherzo comico in italiano, dell'illustre poeta e politico milanese Felice Cavallotti al quale il Nostro era unito da amicizia e simpatia politica.
Il mondo popolare gallipolino aveva offerto al Patitari, per le sue commedie in versi, una materia ricchissima e vivacissima di fatti e sentimenti ed egli, con un sorriso furbo e smaliziato, aveva osservato, cercato, indagato e scelto i suoi personaggi e li aveva fatti rivivere sulla scena con una sapiente e placida ironia, suscitando nello spettatore un riso sano e ristoratore e, contemporaneamente, una sensazione di malinconia a causa di un verso, di una frase gettata a fianco ad un delicato motteggio.
Le sue commedie sono pervase di umorismo: in esse, il Patitari dimostra la sua capacità di rappresentare il ridicolo delle cose e dei personaggi senza manifestare una posizione puramente ostile e divertita ma evidenziando l'intervento di un'intelligenza arguta e pensosa e di una indulgente simpatia umana. Il suo è un umorismo lineare, schietto, limpido, senza tonalità grottesche, esuberante di umanità. Ecco perché il suo verso brilla di peculiare naturalezza, senza eccentricità: un verso che non è cinico ma che osserva con bonarietà i personaggi e che invita non solo al riso ma soprattutto alla comprensione umana ed al compatimento fraterno.