La festa civica del 16 marzo 1879 in Gallipoli
La Biblioteca, il Museo, l’Osservatorio meteorologico comunali e due lapidi commemorative
 

L’uomo non può creare nessuna
opera che sopravviva ad un libro

 

Quel giorno la città era in festa: la fanfara diretta dal maestro Ercole Panico girava per le strade diffondendo note armoniose. Nel palazzo del Seminario, dove da alcuni anni funzionavano le scuole tecnico-ginnasiali comunali, nei locali a piano terra, concessi in comodato dal vescovo Aniceto Ferrante (1873-1879), si inaugurava la Biblioteca comunale, “il picciol Museo”(“Gabinetto zoologico e mineralogico”) e sul terrazzo veniva situato l’Osservatorio meteorologico. Nello stesso giorno, che coincideva con il compleanno del re Umberto I di Savoia, si posero due lapidi commemorative sulla facciata dei palazzi di Giovanni Presta e di Tommaso e Filippo Briganti.
Alla cerimonia, tra gli altri, erano presenti il Prefetto di Lecce, il Sottoprefetto di Gallipoli Agostino Tiscornia, il Sindaco Michele Perrin, il Consigliere provinciale Nicola Massa, tutti i rappresentanti dell’Amministrazione civica, l’Ispettore scolastico Giuseppe De Roma, i professori Ersilio Bicci, Luigi Forcignanò, Cosimo De Giorgi, Rocco Mazzarella (fratello di Bonaventura), Luigi De Simone, Luigi Frezza, Felice Leopizzi e tutti gli insegnanti ed alunni delle scuole secondarie; la famiglia Briganti era rappresentata da Domenico Briganti, già sindaco di Gallipoli, e dal fratello Alessandro.
Emanuele Barba, medico, naturalista, poeta, letterato e patriota, nominato il 27 settembre 1877, dal Consiglio comunale, presieduto dal Sindaco Michele Perrin, bibliotecario a vita con l’annuo stipendio di lire 600, tenne il discorso inaugurale durante il quale illustrò le travagliate vicende della Biblioteca.
Egli così esordì: “Se vi è un giorno di mia vita, nel quale fossi andato altero di esser nato in questa piccola ma ridente cittaduccia, egli è questo, o gentili; perché oggi in ciascuno di voi veggo un rappresentante della civiltà del tempo nostro, perché tutti qui adunati a celebrare la inaugurazione di un tempietto della Scienza, la quale fu, è e sarà l’unica dominatrice del mondo”.
L’insigne personaggio, autore dello straordinario impulso all’erigenda istituzione, ricordò i meriti del Canonico Carmine Fontò, “nato di civil famiglia, educato ai buoni studi, […] amante del patrio decoro, della chiesa e della gioventù discente”, che, dopo aver ottenuto, con Real Rescritto del 9 maggio 1823, da Lubiana, il beneplacito del re Ferdinando I, col suo testamento olografo aveva donato al Comune di Gallipoli la sua biblioteca di 2800 volumi assegnandole “in Beni Fondi una dote sufficiente per lo stipendio di un bibliotecario ed un aggiunto, per compra di nuovi libri e manutenzione dello Stabilimento”. Nel tempo stesso nominava “il Bibliotecario in persona del Rev. D. Nicola Maria Cataldi”, e trasferiva “il diritto di nomina a suoi Eredi e Successori”. Successivamente, con legato del 23 marzo 1825, stipulato dal notaio Simone Pasca, aveva stabilito di “voler render pubblica la sua biblioteca per comodo di chiunque v[olesse] profittarne”, ed aveva designato come bibliotecario a vita il canonico Nicola Maria Cataldi al quale assegnava, per il mantenimento e custodia della stessa, l’usufrutto di “un comprensorio di case site nell’Isola Brancate” e di “un podere olivato sito nel territorio di Gallipoli, luogo detto Suri”. Il Cataldi “si obbliga[va] di custodire, e ben tenere la biblioteca nel luogo designato da esso Signor Fontò [l’abitazione di quest’ultimo], senza giammai amuovere, e far amuovere dalla stessa alcun libro e di tener sempre aperta la stessa biblioteca colla sua assistenza personale per comodo del pubblico nei giorni Lunedì, Mercoledì e Sabato di ciascuna settimana per tre ore al giorno la mattina, eccettuati li giorni e li mesi di vacanza, soliti a prendersi dai Colleggi e Seminarj”. “Dappiù esso Signor Decano volendo dare ad esso don Nicola Cataldi pruove della sua amicizia, con titolo di donazione irrevocabile tra vivi, dona[va] a beneficio di esso medesimo don Nicola Cataldi presente, ed accettante l’usufrutto di una possessione olivata sita nel territorio [di Gallipoli] detto San Salvadore”: tale donazione era fatta “col peso di dover esso don Nicola celebrare e far celebrare cento Messe in ogni anno durante la sua vita, in suffragio dell’anima dei suoi genitori [del decano Fontò]”.
La donazione del Fontò, che morì il 15 maggio 1825, fu impugnata dai suoi eredi e tutto l’asse ereditario soggiacque a sequestro. Ebbe inizio, così, un lungo contenzioso con il Comune di Gallipoli, durato venti anni, al quale, il 30 giugno 1845, mentre era sindaco Domenico Briganti, nipote di Filippo, dopo vari gradi di giudizio, la Gran Corte Civile di Napoli, presidente Cav. Ferdinando Troja, pose fine, accogliendo “in contumacia di parte [gli eredi del Fontò] l’appellazione prodotta dal Comune di Gallipoli avverso la sentenza del Tribunale Civile di Lecce del ventidue agosto mille ottocento trentadue”. Essa revocava quest’ultima sentenza ed ordinava “che gli eredi del Decano D. Carmine Fontò rilasci[assero] a favore del Comune di Gallipoli la Biblioteca pubblica che il detto D. Carmine Fontò [aveva] stabil[ito] in favore del Comune medesimo con l’Istrumento del ventitre marzo mille ottocento venticinque”; condannava “detti Eredi alle spese dell’intiero giudizio liquidato in ducati cento sessantasei, e grana tre”, e delegava “il Giudice Regio del Circondario di Gallipoli per destinare un usciere che intimi la presente alla parte contumace”.
Bonaventura Mazzarella, in quel tempo Supplente del Giudicato Regio del Circondario di Gallipoli, il 4 settembre 1845, per “l’intima della decisione della Gran Corte Civile di Napoli alle parti contumaci” domiciliate in Gallipoli, Lecce, Taviano e Soleto, destinò rispettivamente gli uscieri Giuseppe Quarta, Giacondiano Perrone, Francesco Leone e Giuseppe Marsili.
La biblioteca del Fontò, privata, per decisione della Gran Corte Civile di Napoli, del patrimonio dotale che il testatore le aveva assegnato, venne finalmente nelle mani del Comune.
Durante il lungo contenzioso, per i libri, che erano stati affidati dall’Amministratore giudiziario all’Amministrazione civica, era già iniziata la via crucis: essi furono trasferiti da un locale all’altro, spesso in luoghi angusti e fatiscenti che non impedivano i continui furti. Dapprima furono depositati in un locale del soppresso Convento dei Paolotti e successivamente trasferiti in alcuni ripostigli nella Casa comunale (ex-Pretura, in via A. de Pace) dove erano facile preda dell’umidità, delle tarme e dei ladri che li prelevavano su commissione dei bottegai locali. Nel 1844, su sollecitazione dell’Intendente di Terra d’Otranto, ad essi fu trovata una prima sistemazione in un locale sito in via Ospedale Vecchio al n° 42, dove, inventariati, furono sistemati in appositi scaffali.
Dopo la sentenza che dava ragione al Comune, la Biblioteca, ancora per alcuni anni, rimase chiusa al pubblico in quanto essa era priva di strutture e suppellettili idonee che, nonostante le continue e pressanti richieste del canonico Cataldi e l’interessamento del Sottintendente D’Aulisio, gli amministatori comunali si rifiutavano di fornire, trincerandosi dietro inconsistenti motivazioni. Il 25 aprile 1858 essa fu trasferita in alcuni locali dell’ex Convento dei Domenicani dove, finalmente, grazie anche alla solerzia del vice Bibliotecario, notaio Giovanni Consiglio, che aiutava il vecchio e malandato D. Nicola Cataldi, iniziò a funzionare decentemente. Il Consiglio, che subentrò nella direzione al Cataldi, dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta il 16 luglio 1867, diede un ulteriore impulso all’Istituzione, utilizzando anche i fondi stanziati dal Consiglio Provinciale a favore delle 4 biblioteche provinciali (Lecce, Brindisi, Taranto e Gallipoli), istituite nei Comuni della Provincia capoluoghi di Circondario (essa tornò di fatto Comunale nel 1879).
Emanuele Barba, dopo aver ricordato il Fontò, continuò la sua relazione precisando che, “soppressi i conventi dei Padri di S. Domenico, dei Frati minori della Riforma, e dei Cappuccini, benchè la dote dei libri fosse cresciuta sino a 5608, indarno se ne cercava uno edito dopo il primo quarto del secolo volgente” e che “i libri aggiuntivi, de’ quali 1200 logori dai tarli, frusti per malo uso, erano quasi tutti d’argomento chiesastico, espositori biblici e scolastici, sacri oratori ed ascetici, costituenti tuttora la gran parte fossile di questi scaffali. E da ciò rarissimi i leggitori”.
Ringraziava, poi, il Municipio e il Sindaco Michele Perrin per il fatto che “quelle migliaia di libri, che per condizion di luogo giacevan polverose ed abbandonate da tutti, fuorchè dai tarli”, si trovavano “a più facile uso d’ogni maniera di leggenti, e soprattutto degli […] insegnanti ed alunni delle scuole secondarie, i quali se li [avevano] come in propria casa”; informava, inoltre, che “per maggior incitamento alla lettura ed allo studio, oltre le 600 donate dai benemeriti cittadini (il 10 novembre 1866 egli aveva donato “cento volumi di scrittori moderni di sua proprietà”), altre centinaia di opere recenti in quasi tutte le branche di scienze e di lettere [erano] state acquistate”, e che “pel meglio di tutta la scolaresca […] s’[era] iniziato un picciol Museo di cose naturali, a cominciare dai prodotti del nostro suolo e del nostro mare”.
Convinto dell’importante funzione educativa e civile della biblioteca pubblica, l’illustre relatore, rivolgendosi ai giovani concittadini, si diceva certo che essi avrebbero “second[ato] con forza e costanza di volere e di propositi gli sforzi civilissimi del Municipio, il quale mira[va] a conseguire lo sperato benessere delle famiglie [gallipoline] e ad accrescere il decoro della città”; e credeva e fortemente sperava che essi avrebbero impiegato la maggior parte del loro tempo dedicandosi allo studio nelle sale della Biblioteca dove erano raccolti “i più mirabili frutti dell’ingegno umano […], frutti d’inspirazioni divine, frutti di meditazioni e di studi che segnarono di rughe precoci le più nobili menti umane, frutti delle più splendide fantasie dell’universo”.
Così, infine, li esortava: “Eccovi in 8000 volumi postivi innanzi il pane della mente – Cibatevene […] e meditando su questi volumi, e su quelli del fior fiore degl’illustri nostri antenati, le cui effigie fa bella corona a queste sale, voi dovete aspirare a quella gloria, potete conseguire quell’invidiabile trono […]. Ma in questo nostro Panteon municipale, sul culmine di questa nostra gloriosa piramide, eccovi in Giovanni Presta, in Tommaso e Filippo Briganti, gli astri più fulgenti del cielo di questa sala – Essi, come aquile sorvolando sugli altri illustri, han meritato una splendida pagina nella storia della scienza – Né per mutar di fortuna, di tempi e di opinioni si cancellerà quella pagina, ch’è nostro vanto ed orgoglio; perocchè la scienza, avendo per unico obbietto il vero, è democratica di sua natura, e, vincendo lo spazio, il tempo ed i conati d’ogni tirannide, sospinge con forza irresistibililmente operosa le umane generazioni al progresso civile ed economico, ed alla gratitudine verso gli scopritori del vero – E voi giovani, studiando nei volumi del Presta, che abbatte gli errori dei metodi di coltivare gli ulivi e di estrarne dal frutto quel liquido, ch’è massimo nostro tesoro e speranza, scorgerete la cagion vera dell’odierno progredire in quella branca agronomica, e della gloria dell’immortale nostro concittadino - Né vi basti -voi nella Pratica criminale di un Tommaso Briganti scorgerete un giusperito, che fu l’illustre precursore del Beccaria, e il primo in Italia a stigmatizzare la legale tortura – e nelle opere del suo degno figlio Filippo (a proposito il 23 febbraio 2004 ricorre il bicentenario della sua morte: come intendono commemorarlo l’Amministrazione comunale, la cittadinanza e le nostre Associazioni culturali?) vedrete un sofo dalla poetica parola, dallo stile epigrammatico, accapigliarsi col Rousseau col Mably coll’Hume e confutar con vigor di logica la teoria sociale del primo, la economica del secondo e la statistica del terzo, folgorando a quei colossi dell’eloquente sofisma verità sfuggite affatto alle loro menti sublimi. E se per tali ragioni, la Storia ha consacrato un posto a quei tre lumi di scienza, era giusto era santo che Gallipoli su cui riflette tanto bagliore di gloria, significasse ai venturi la sua gratitudine con un perenne munumento” (negli anni che seguirono, quanti monumenti la città ha innalzato ai suoi illustri figli? e quante loro opere ha provveduto a raccogliere e ristampare per farle conoscere ai giovani?).
E ad Emanuele Barba toccò l’onore di scoprire le lapidi marmoree poste alle case del Presta e dei Briganti e di dire “poche parole piene di amor patrio e di lode a quei Benemeriti”, che servirono a far intendere ai presenti che quella festa “non era una convenzionale cerimonia destinata a sciupio di tempo da chi non sa farne miglior uso, ma che era invece un debito di riconoscenza che tardi, ma forse non invano, si pagava alla gloriosa memoria di quegli uomini illustri”.
Il prof. Rocco Mazzarella tenne, invece, il discorso inaugurale della “Stazione Meteorica” situata “alla cima dell’edificio sempre dedicato agli studi”.
L’Osservatorio meteorologico si elevava a m. 25,30 dal livello del mare e per la sua erezione avevano collaborato il prof. Cosimo De Giorgi, fondatore di quello di Lecce, ed i proff. Frezza e Leopizzi, incoraggiati dal famoso astronomo Padre Denza, direttore dell’Osservatorio di Moncalieri. Furono sistemati il pluviometro, donato dal Governo, l’anemoscopio costruito dal Municipio, gli apparecchi per l’analisi dell’acqua e per l’ozonometria, lo psicometro, i termometri registratori del massimo e del minimo di temperatura, il barometro.
Grazie ad Emanuele Barba la Biblioteca comunale, “vera farmacia moralle nella quale ad ogni bisogno è pronto un rimedio”, era nata a nuova vita: essa assumeva “una funzione educativa e civile per un progetto di formazione collettiva organica alla rinascenza politica, democratica, morale della piccola come della grande patria”. Egli l’aveva arricchita “delle opere intere dei grandi educatori politici” come il Gioberti, il Cavour, il D’Azeglio, il Cattaneo, il Ferrari, il Guerrazzi, il Mazzini, “convinto che la novella generazione degli studiosi [era] vincolata dal doppio obbligo di coltivarne con intellletto di verità le dottrine, e di seguire con intelletto d’amore l’esempio delle loro virtù”.
La stampa locale e nazionale diede ampia eco all’avvenimento: su Il Risorgimento di Lecce, Il Propugnatore di Lecce, Lo Studente Magliese, Il Municipio di Napoli, La Donna di Bologna, espressero giudizi lusinghieri ed attestati di riconoscenza, nei riguardi della benemerita istituzione e del suo direttore, personalità e giornalisti come Cosimo De Giorgi, Gioacchino Stampacchia, Cesare Miglietta, il medico Giuseppe Ria, Linda Maddalozzo.
E dopo? Nel periodo in cui essa fu diligentemente gestita da Emanuele Barba fino alla sua morte, avvenuta il 7 dicembre 1887, la sua esistenza fu agitata dalle puerili ed insistenti bizze dell’illiberale ed intransigente vescovo Enrico Carfagnini (1880-1898), che “insensibile alle ragioni della cultura e della scienza”, rifiutava il rinnovo del contratto di comodato dei locali del Seminario. Dopo numerosi tentativi di accomodamento e continui rinvii, nel 1896, l’Amministrazione comunale fu costretta a cederli e ad affastellare in un angusto deposito, nello stesso Seminario, il patrimonio bibliografico ed i reperti del Museo, la maggior parte dei quali erano stati donati dal Barba, anche questa volta alla mercè dei ladri che compirono “un vero e proprio massacro scientifico letterario”.
Occorrerà attendere il 14 marzo 1899 quando, grazie all’interessamento dei Sindaci Simone Pasca Raymondo e Giovanni Ravenna, la Biblioteca ed il Museo furono sistemati nel nuovo edificio in via A. de Pace, costruito con le somme del Comune, della Provincia e con quelle ricavate (lire ottomila) dalla vendita al Vescovo di Gallipoli del Monastero delle Teresiane.
Dopo “il riordinamento della gran massa degli 8000 volumi”, ad opera del nuovo Bibliotecario ad honorem, Ernesto Barba (morì suicida il 22 ottobre 1902), figlio di Emanuele, essa fu riaperta al pubblico: la Giunta municipale, il 10 marzo 1899, ne aveva approvato il regolamento (Art. 1°. La Biblioteca ed il Museo dovranno essere aperti al Pubblico in tutti i giorni dell’anno, meno quelli di Capodanno, Natale e Pasqua, dalle ore nove ant.m. alle ore 12 e dalle 2 pom. alle 4. Nei giorni festivi non si aprono i locali nelle ore pomeridiane (omissis). Art. 2. La direzione della Biblioteca e del Museo saranno affidate ad un Bibliotecario nominato dal Consiglio Comunale, che verrà coadiuvato da un assistente […].).
Per tutto il secolo XX, essa, priva di strutture e personale sufficiente e qualificato, ha vivacchiato, tra l’insensibilità degli Amministratori comunali, il disinteresse della cittadinanza e degli operatori culturali locali, fatte rarissime eccezioni.
Teodoro Pellegrino, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce, nel maggio 1957 scriveva che “per oltre 55 anni dalla riapertura e dalla nuova sistemazione, la biblioteca comunale di Gallipoli tirò avanti alla men peggio, ma non ebbe decisivi sviluppi, malgrado le cure del nuovo direttore, […], avv. Bonaventura [don Ninu] Mazzarella ”; aggiungeva, poi, che le sue condizioni erano “tristissime”, e che da diversi anni era chiusa al pubblico “in uno stato di vero abbandono”.
L’Annuario delle Biblioteche Italiane, edito nel 1956, riportava la consistenza del patrimonio librario della Biblioteca comunale: 6600 volumi ed opuscoli sciolti, 42 incunaboli, 47 manosctitti: secondo questi dati in 70 anni si erano perduti circa 1400 libri.
Nel 1965, Giulio Del Pozzo, segretario comunale di Gallipoli, accertò l’esistenza di 10.500 volumi, di 8 incunaboli, di circa 100 cinquecentine, di 55 manoscritti con un inventario generale in ordine alfabetico di autori; egli scriveva che non esisteva “un inventario per materia e qualsiasi schedario e catalogo generale: grave lacuna che rende[va] difficilissima la scelta dei libri, a meno che non si conosc[essero] gli autori desiderati.”
Dopo quasi 15 anni nulla era cambiato se, nel febbraio del 1979, Elio Pindinelli così scriveva “Oggi, nonostante una dotazione di oltre 12.000 volumi, raccolti in moderni scaffali metallici, e ben 4 inventari negli ultimi 5 anni, la Comunale di Gallipoli si presenta purtroppo in un totale stato di abbandono, con schedatura insufficiente, poco curata e di difficilissima consultazione, e con migliaia di volumi, anche di pregio, irrimediabilmente infestati dalle tarme”. Affermava, poi, che ufficialmente esistevano, “collocati in un apposito armadio 10 incunabili”, e che egli ne aveva rintracciati altri 11, “alcuni dei quali purtroppo in condizioni disastrose”, tra i libri della ex biblioteca dei Francescani. Un “paleotipo” del 1468 (Summa Silvestrine, pars secunda, Roma) era, invece, risultato introvabile ed a tal proposito il Pindinelli così continuava: “A questo punto, conoscendo le tristi vicende della Comunale di Gallipoli, sono certo che quel prezioso ‘paleotipo’ ha preso la via di centinaia e centinaia di volumi disgraziatamente trafugati negli anni ’50, quando (e sono in molti a ricordarlo) la chiave del portone d’ingresso della biblioteca passava nelle mani di gente che qualificata ‘colta’, non ha avuto scrupoli nel saccheggiare in pochi anni una delle più importanti istituzioni culturali salentine”. Il saccheggio continuerà anche dopo tra l’indifferenza dei responsabili comunali.
Ancora giuste doglianze da parte di Luigi Carlo Fontana che, nel giugno 1982, stigmatizzava l’insufficienza del personale “per una normale funzionalità” sia della Biblioteca che del Museo, e suggeriva all’autorità civica di affidare l’incarico di direttore della Biblioteca, scindendolo da quello per il Museo, “ad un bibliotecario specializzato a conoscenza dei problemi di biblioteconomia e bibliografia”, e di evitare inacarichi direttivi onorari, che si erano rivelati ed in seguito, purtroppo, si riveleranno poco producenti o qualche volta infausti.
Alla metà degli anni Novanta, con un suo pregevole lavoro sulla Biblioteca comunale di Gallipoli, Gino Pisanò, giustamente preoccupato per le infelici condizioni dell’istituzione, cercava di sensibilizzare “quanti [ne avevano] a cuore le sorti” a provvedere “alla sua ‘rifondazione’, prima che le tarme, già pingui, completino il loro lavoro di infestazione”.
Le doglianze, le sollecitazioni di questi pochi sono state inutili, poiche esse si sono scontrate con l’insensibilità, l’indifferenza, il cinismo e la protervia degli Amministratori della cosa pubblica che da svariati anni hanno retto e reggono le sorti della città. La biblioteca ha seguito il destino della decadenza economica, culturale e morale della città tra il disinteresse dei cittadini, fatta eccezione per poche voci isolate che però non hanno sortito alcun risultato.
La Biblioteca, trasferita nel 1987 da via A. de Pace in via S. Angelo, nei locali al primo piano dell’ex Oratorio dei Nobili Patrizi, ha continuato ad essere fino ad oggi assieme all’Archivio storico, che occupa la chiesetta di S. Angelo, al piano terra, in uno stato di abbandono e degrado (in una non migliore situazione si trova la Biblioteca e l’Archivio storico della Curia vescovile, anch’essi saccheggiati durante gli anni: già nel lontano 1982 il Bibliotecario, sac. Vittorio Gino Piccinno, esortava, inutilmente, le Autorità religiose che “venisse istituita una sede idonea, funzionale, capace di conservare e mettere a disposizione degli studiosi le opere conservate): è da anni che non si comprano libri e riviste e quelli in dotazione compresi gli incunaboli, i manoscritti e le cinquecentine sono preda dell’umidità e delle tarme (peggiore sorte soffrono i preziosi documenti dell’Archivio storico, al piano terra, utilizzato come deposito, e difficilmente accessibile per la consultazione). Essa non dispone di un regolamento, di un direttore e di personale sufficiente e qualificato e spesso è chiusa al pubblico. Difficile è la consultazione dei testi in quanto è provvista solo di un vecchio schedario cartaceo per autori non aggiornato e delle schede degli incunaboli e dei manoscritti; costosa l’estrazione di fotocopie; non funzionante l’impianto di climatizzazione, installato alcuni anni fa, che se riparato potrebbe offrire sollievo non solo al patrimonio bibliografico ma anche ai rari utenti; scarse e poco funzionali le suppellettili nell’unica scrostata sala di lettura, il più delle volte privata della funzione a cui è deputata per essere utilizzata per la celebrazione di matrimoni, per conferenze e riunioni sindacali con l’immediata ed educata espulsione degli utenti.
Da tutto ciò si possono individuare le numerose barriere che si sono frapposte e continuano a frapporsi tra l’utente e l’informazione ed è strano che per anni non si siano mai levate da parte degli operatori scolastici, degli studenti, dalle Associazioni culturali locali, che dovrebbero essere i principali fruitori del patrimonio biblografico, voci di protesta contro questo increscioso stato di cose.
Il 19 olttobre 2001 la Cooperativa Arckeion di Lecce ha terminato la reinventariazione del patrimonio librario antico (pubblicazioni monografiche stampate prima del 1801) dislocato nelle strutture del Museo-Biblioteca in via A. de Pace e in quelle della Biblioteca in via S. Angelo, censendo 10.551 volumi. Ha effettuato, inoltre, la verifica degli inventari (albo delle donazioni, registri d’ingresso, elenchi manoscritti esistenti nella Biblioteca in via S. Angelo), rilevando che risultano mancanti 238 volumi segnati sui registri d’ingresso e 500 segnati sull’albo delle donazioni; ha attuato la ricognizione storica delle collezioni librarie antiche con la selezione dei testi antichi da quelli moderni del Museo-Biblioteca, schedando 1.000 volumi appartenenti alle collezioni storiche. Infine ha provveduto all’analisi dello stato di conservazione dei volumi danneggiati, fornendo le opportune indicazioni relative alla collocazione del patrimonio librario.
Questo pregevole lavoro, però, non avrà alcuna utilità se rimarrà isolato o abbandonato in qualche cassetto (e già successo negli anni passati per altri lavori) e se ad esso non faranno seguito altre iniziative intese a fornire un completo e definitivo inventario del patrimonio bibliografico che si presterà ad una moderna informatizzazione solo dopo che si procederà a formulare una esatta valutazione della reale situazione in cui versa la biblioteca, effettuando una seria verifica del suo stato di salute generale e dei suoi servizi (locali adatti, scaffali, stato di salute di tutto patrimonio bibliografico, risorse finanziarie, personale professionalmente aggiornato ecc.).
Marguerite Yourcenar ha scritto in un suo libro che: “costruire un porto significa fecondare la bellezza del golfo, mentre imprimere la vita alle biblioteche e farle funzionare, nel tessuto della società umana, equivale a costruire i granai pubblici, ammassare riserve contro un eventuale inverno dello spirito, che potrebbe, da un momento all’altro bussare alla nostra porta”.
La libertà, il benessere e lo sviluppo della società e degli individui sono valori umani fondamentali. Essi potranno essere raggiunti solo attraverso la capacità di cittadini ben informati di esercitare i loro diritti democratici e di giocare un ruolo attivo nella società. La partecipazione costruttiva e lo sviluippo della democrazia dipendono da un’istruzione soddisfacente, così come da un accesso libero e senza limitazioni alla conoscenza, al pensiero, alla cultura e all’informazione.
I nostri governanti comunali dovrebbero meditare su ciò e sapere, inoltre, che il vero progresso di una città è quello dell’intelligenza e non soltanto quello materiale; che la biblioteca opera per la cultura e per l’uomo al quale fornisce “il pane della mente”, presentandosi “come luogo privilegiato di incontro e confronto, come oasi di pace dove poter penetrare il pensiero proprio e quello altrui alla ricerca dell’umano”; che esiste uno strettissimo legame tra crescita culturale e biblioteca in un rapporto di interdipendenza senza sosta, che ha il suo fulcro nell’uomo stesso e nella natura della sua creatività; che per incontrare la biblioteca nella sua pienezza e coglierla nelle sue più diverse articolazioni, per poterla servire in modo efficace, occorre percepire, con l’occhio della mente e del cuore, la sua concreta posizione nel mondo degli uomini, la sua specifica funzione ed il suo reale valore; ed infine che essa è un organismo dinamicamente proteso verso la comunità, vivo ed utile nella misura in cui adempie i compiti ad esso devoluti, e che quando non è strutturata come un servizio alla comunità, nel cui seno è sorta ed opera, può facilmente diventare uno strumento completamente inutile.
Solo se gli amministratori comunali faranno proprie queste indicazioni, gran parte delle quali sono sancite nel Manifesto UNESCO sulle biblioteche pubbliche del 1995, potrà essere raggiunto l’importante obiettivo della biblioteca pubblica “come forza vitale per l’istruzione, la cultura e l’informazione e come agente indispensabile per promuovere la pace e il benessere spirituale delle menti di uomini e donne”.

 

 

[home page] [indice]