L'APPROFONDIMENTO
I Coppola nel '600 - Giovanni Carlo Coppola
Giovanni Andrea Coppola - Ritratto di Giovanni Carlo |
Nel 1599 quando a Gallipoli nacque Giovanni Carlo Coppola dal patrizio Leonardo e dalla nobil donna Giovanna Pepe era sindaco Giovanni Abatizio e la diocesi era retta dal vescovo Vincenzo Capece (1595-1620), di nobile famiglia napoletana, che si distinse per dottrina e saggezza. La città faceva parte del Regno di Napoli che Filippo III, re di Spagna, governava per mezzo di un viceré. Essa godeva del titolo di città demaniale, non soggetta mai a feudatario, alle dipendenze dirette del Re. L'autorità regia si manifestava nella persona e nelle funzioni di un Governatore Regio il quale si limitava ad amministrare la giustizia ed a presiedere i Comizi in occasione dell'elezione del general sindaco, scelto tra i patrizi, che amministrava la Città assieme ad un Parlamento civico composto di 80 persone scelte tra le più colte ed onorate. Ad eccezione di qualche breve periodo di carestia , tutti i ceti sociali vivevano nell'agiatezza, poiché Gallipoli era diventata, grazie al suo olio, l'emporio più importante del Mediterraneo. Decine di navi ogni giorno sostavano nel porto e caricavano il prezioso prodotto trasportandolo in ogni parte del mondo. Si doveva lavorare anche nei giorni festivi ed i gallipolini furono esonerati, su loro richiesta, dall'osservanza di santificare le feste dalle Bolle papali del 18 aprile 1581 e 28 febbraio 1590 emanate, rispettivamente, da Gregorio XIII e Sisto V ed indirizzate entrambe "Dilectis filiis Communitatis, et hominibus Gallipolitanis" . |
Giovanni Carlo, sin dagli anni più teneri, manifestò una precoce e doppia vocazione alla vita sacerdotale ed all'arte poetica. Nella città natale, guidato dai monaci domenicani e francescani, compì con gran profitto i primi studi di greco, di latino, di retorica, di filosofia e teologia, abbracciando lo stato ecclesiastico. Nei salotti gallipolini iniziava a far sfoggio del suo estro poetico come improvvisatore, ostacolato in ciò dal padre. Nel gennaio del 1616, per realizzare le sue aspirazioni, senza il permesso paterno, si allontanò da Gallipoli ed approdò a Napoli, capitale del Regno, mentre era viceré il duca di Ossuna (26 giugno 1616-3 giugno 1620).Ma quale situazione sociale e politica trovò il Nostro nella capitale del Regno dopo aver abbandonato la sua città, che in quei tempi, in un territorio meridionale squassato dall'oppressione, dall'ingiustizia, dalla miseria e dal degrado, rappresentava ancora un'oasi felice dove il ceto dei patrizi era rimasto sostanzialmente austero, geloso custode della demanialità civica che garantiva l'indipendenza economica e la difesa dall'esoso neo-feudalesimo spagnolo e che riscuoteva ancora piena e completa la fiducia del popolo che viveva nell'agiatezza dovuta ai fiorenti traffici commerciali? |
Frontespizio del Poema Sacro "Maria Concetta", preziosa introvabile edizione del 1635, che si trova nella biblioteca privata del Prof. Lamberto Coppola (Fare click sull'immagine per ingrandirla) |
La capitale era travagliata, come tutto il resto del territorio del vicereame, da un profondo malessere: i contrasti sociali erano drammatici. Sui 200 mila abitanti, che facevano della capitale la più popolosa città italiana, i nove decimi erano plebei, o lazzari, affamati e cenciosi che campavano di elemosine e di espedienti, facile esca di mire demagogiche ed eversive: questa plebe forniva i quadri alla malavita organizzata locale che nei primi anni del Seicento con la nascita della "camorra" si diede una vera e propria organizzazione gerarchica. Accanto a questo ceto sociale vivacchiava un popolo di bottegai, barcaioli, mulattieri, piccoli commercianti, artigiani e contadini. Il clero rappresentava una classe benestante e privilegiata: solo a Napoli erano presenti quasi 30 mila ecclesiastici; essi beneficiavano di immunità e privilegi e l'alto clero faceva sfoggio di ricchezze e di pompa e, non meno dei principi e dei baroni, era geloso delle proprie prerogative. La borghesia era composta di avvocati, magistrati e appaltatori d'imposte che servivano la Corte, godevano di un reddito decente e di qualche privilegio. |
La nobiltà contava un centinaio di principi, 150 duchi, 163 marchesi, alcune centinaia di conti ed un numero incalcolabile di baroni: essa era arrogante, prepotente, abulica, sorda ad ogni innovazione e si considerava sovrano assoluto nel suo feudo sentendosi al di sopra della legge. Ostentava titoli altisonanti cui non sempre facevano riscontro rendite adeguate, trattava dall'alto in basso le altre classi e dava, con la sua riottosità, parecchio filo da torcere ai viceré, la maggior parte dei quali, nel Regno, lasciarono di sé pessimo ricordo. Essi venivano dalle file della nobiltà castigliana, erano completamente digiuni di amministrazione, pensavano al loro tornaconto, ad arricchirsi e ad arricchire la Corona spagnola, vessando in maniera indecente i sudditi. Imponevano dogane, dazi, balzelli su ogni tipo di merce e quando le tasse non bastavano a coprire le enormi spese di Corte ed a colmare i sempre crescenti disavanzi, ricorrevano ad esazioni straordinarie come i "donativi" o a vendere ai baroni le città demaniali . |
Il giovane abatino, alto, robusto, di bell'aspetto, sprizzante simpatia da tutti i pori, buon conversatore, fu accolto nei salotti dell'aristocrazia partenopea e nei migliori ambienti culturali dove mise in mostra la sua grande cultura letteraria e filosofica e le sue ottime doti di poeta estemporaneo che gli procurarono numerosi attestati di ammirazione e stima. Ben presto divenne famoso: tutta Napoli ne parlava e tesseva le sue lodi fino a quando il viceré, duca d'Ossuna, gran mecenate, lo invitò a Corte a tenere un'Accademia di poesia estemporanea. Il giovane Coppola improvvisò su diversi argomenti che i numerosi presenti gli proposero: il suo verseggiare era così spontaneo e fluido che ricevette grandi applausi e fervide congratulazioni. Il viceré fu talmente impressionato della bellezza della sua vena poetica che lo abbracciò e lo invitò a vivere a Palazzo. Successivamente fu nominato Poeta di Corte con un lauto stipendio e fu onorato e rispettato dall'aristocrazia partenopea e spagnola. Egli, però, era insoddisfatto del suo impiego e della vita vacua ed insignificante che si svolgeva a corte. Aveva ben altre aspirazioni: dopo quattro anni chiese congedo dal suo benefattore, si ritirò ed iniziò a ricercare il vero senso della sua esistenza nella speculazione filosofica. |
Il giovane abatino, alto, robusto, di bell'aspetto, sprizzante
simpatia da tutti i pori, buon conversatore, fu accolto nei salotti dell'aristocrazia
partenopea e nei migliori ambienti culturali dove mise in mostra la sua grande cultura
letteraria e filosofica e le sue ottime doti di poeta estemporaneo che gli procurarono
numerosi attestati di ammirazione e stima. Ben presto divenne famoso: tutta Napoli ne
parlava e tesseva le sue lodi fino a quando il viceré, duca d'Ossuna, gran mecenate, lo
invitò a Corte a tenere un'Accademia di poesia estemporanea. Il giovane Coppola
improvvisò su diversi argomenti che i numerosi presenti gli proposero: il suo verseggiare
era così spontaneo e fluido che ricevette grandi applausi e fervide congratulazioni. Il
viceré fu talmente impressionato della bellezza della sua vena poetica che lo abbracciò
e lo invitò a vivere a Palazzo. Successivamente fu nominato Poeta di Corte con un lauto
stipendio e fu onorato e rispettato dall'aristocrazia partenopea e spagnola. Egli, però,
era insoddisfatto del suo impiego e della vita vacua ed insignificante che si svolgeva a
corte. Aveva ben altre aspirazioni: dopo quattro anni chiese congedo dal suo benefattore,
si ritirò ed iniziò a ricercare il vero senso della sua esistenza nella speculazione
filosofica.
In quel tempo nelle carceri di Castel dell'Ovo, dopo aver soggiornato a lungo
nell'"orrida fossa" di Castel Sant'Elmo, si trovava il filosofo Tommaso
Campanella, condannato al carcere a vita per eresia e per aver organizzato, nel Regno di
Napoli, una congiura per l'instaurazione di una repubblica teocratica di cui egli sarebbe
stato il legislatore ed il capo. Dal fondo della sua cella, lanciava appelli e consigli a
tutti i re e i principi della terra, vaticinando l'imminente rinnovamento del mondo col
ritorno di esso ad un'unica religione e ad un unico stato. Si diceva convinto che solo la
monarchia di Spagna potesse realizzare l'unificazione politica del genere umano.
Giovanni Carlo, appena ventenne, influenzato dalle ardite teorie filosofico-religiose e
dalla personalità estrosa ed intellettualmente contraddittoria del filosofo di Stilo,
troncò ogni rapporto con la vita culturale e mondana partenopea, divenendone fervente
discepolo e andandolo ad ascoltare, per circa cinque anni, nella sua cella dove al
Campanella era stato accordato di ricevere le visite di amici e discepoli. Questa lunga
frequentazione rappresentò per il Nostro una lunga parentesi di pace dello spirito e di
vero godimento intellettuale e ciò lo si deduce dal fatto che non intese abbandonare il
suo maestro quando quest'ultimo, nel maggio del 1626, raggiunto da un altro ordine di
arresto del tribunale dell'Inquisizione, venne trasferito a Roma nelle carceri del Santo
Uffizio .
Nella città eterna, governata dal munifico ed autoritario pontefice Urbano VIII (Maffeo
Vincenzo Barberini), il Coppola continuò a stare vicino allo Stilese che, nonostante
l'amicizia e la protezione del Papa, veniva continuamente vessato dall'Inquisizione. Egli
completò i suoi studi ecclesiastici e si addottorò "in utroque iure". Anche
qui esplose il suo genio poetico e per questo fu aggregato alle famose Accademie degli
Arcadi e degli Infecondi che egli frequentò assiduamente. Conobbe Urbano VIII dal quale
fu stimato ed onorato e poté contare sull'amicizia e protezione di alti prelati del
Vaticano tra cui il cardinale Francesco Brancaccio, appartenente ad una nobile e
ricchissima famiglia napoletana.
Quando il Campanella, nel 1634, consigliato dal Pontefice, fu costretto ad abbandonare
Roma e rifugiarsi a Parigi, dove fu accolto benevolmente da Luigi XIII e dal cardinale
Richelieu, il Coppola si trasferì a Firenze presso la corte del granduca di Toscana,
Ferdinando II dei Medici. Qui nel 1635 pubblicò per i tipi del Nesti in due formati, in
4° e in 6°, il suo capolavoro, sotto il titolo "Maria Concetta", un poema
sacro, in venti canti in ottave, che valse all'autore il lusinghiero titolo, da parte di
Urbano VIII, di "Tasso sacro". Frutto di un lavoro di quasi dieci anni, il poema
è intestato a un titolo di privilegio in quel periodo universalmente professato dalla
Chiesa, anche se non ancora dogmaticamente definito, riguardante l'Immacolata Concezione
della Vergine Maria. Esso si presenta come una complessa macchina allegorica con
dichiarati intenti di edificazione e di promozione di un'accesa devozione mariana.
Nonostante l'opera avesse riscosso ampi consensi e giudizi lusinghieri anche da parte di
molte gerarchie ecclesiastiche, si attirò gli strali del Santo Uffizio che, nel 1636, la
censurò e la condannò. Una nuova edizione, opportunamente purgata dall'autore secondo le
indicazioni del Santo Uffizio, uscì, nel 1648, in Napoli, per i tipi di Onofrio Savio.
Il Granduca Ferdinando II, "sorpreso dalla sublimità e felicità de' suoi
versi" , lo volle come suo Poeta di Corte, assegnandogli una ricca pensione ed
ospitandolo nel fastoso Palazzo Pitti.
Il poeta, in occasione delle nozze del granduca con la giovanissima Vittoria della Rovere,
principessa di Urbino, scrisse, in soli sette giorni, nel 1637, una favola in versi per
musica, da rappresentare in un teatro all'aperto nel cortile dell'Ammannati di Palazzo
Pitti, dal titolo "Le Nozze degli Dei", pubblicata a Firenze, nel 1637, da
Amadore Mazzi e Filippo Landi. "Costruita sull'intrecciarsi delle vicende nuziali di
quattro coppie divine, secondo uno schema non inconsueto di convergenze mitologiche e
perfino cosmologiche intorno alle nozze dei nobili committenti, la favola del Coppola,
dopo essere stata sottoposta in gennaio, con esito assai lusinghiero, al giudizio di
Galileo Galilei (caro amico del Nostro) , oltre che del granduca stesso, fu posta
rapidamente in musica da cinque compositori fiorentini, coordinati da Ferdinando
Saracinelli" .
Nonostante gli invidiabili successi ed i grandi onori, il Coppola provava una grande
insoddisfazione: non era contento della vita di corte e di piegare il suo genio poetico
all'adulazione. In lui affiorava prepotentemente il bisogno di curare l'altra sua
vocazione, quella religiosa, che gli avrebbe permesso di dedicarsi ad una missione più
alta della vita, quella di diffondere tra la gente il messaggio evangelico. Questo
desiderio fu esaudito per intercessione del suo amico, cardinale Brancaccio, e per
volontà di Urbano VIII che lo nominò, nel febbraio del 1640, arciprete della collegiata
di S. Michele Arcangelo di Terlizzi . In questa città trovò la Chiesa locale in crisi a
causa di un acuto conflitto giurisdizionale in atto tra il clero di Terlizzi e il vescovo
di Giovinazzo, Carlo Maranta. Il nuovo arciprete, quando giunse nella città, era
all'oscuro della difficile situazione, delle polemiche e dei torbidi avvenimenti che si
erano verificati negli ultimi anni. L'impatto con la realtà locale fu traumatico: ne
rimase deluso e stordito, mentre gli si veniva prospettando l'incognita di una difficile
permanenza e di futuri dissensi e conflitti con il vescovo di Giovinazzo. Infatti, durante
i quasi tre anni del suo incarico, si verificarono numerosi scontri e ricorsi che non
approdarono a niente e che coinvolsero la Sacra Rota ed il Consiglio Collaterale di
Napoli, fino a quando il Coppola, stanco, non maturò l'idea di rinunciare
all'arciprelatura.
Il 18 maggio 1643, Urbano VIII, anticipando la sua decisione, lo destinò alla sede
vescovile di Muro Lucano, dopo aver trasferito il suo predecessore Clemente Confetti a
quella di Acerno .
La diocesi murana comprendeva una decina di altri paesi e disponeva di una mensa vescovile
molto povera che doveva corrispondere annualmente una pensione di duecento ducati ed una
tassa di trenta fiorini e mezzo alla Curia romana .
Il nuovo vescovo, nel dicembre del 1645, celebrò un Sinodo diocesano attraverso gli atti
del quale possiamo capire l'esatta dimensione della sua figura di vescovo e pastore. Il
Sinodo rappresentò una vera e propria inchiesta sulla situazione della diocesi con
particolare riferimento alla vita religiosa e morale della popolazione e del clero. Grande
desiderio del Coppola era quello di avviare un concreto processo di tridentinizzazione
nella sua diocesi teso a salvaguardare la purezza della verità della fede.
Ben presto si era accorto che la sua comunità diocesana, di pretta estrazione contadina e
in permanente stato di miseria e sottosviluppo, praticava una religiosità che si rivelava
come "un misto di magia e superstizione attraverso un culto misterico della natura e
un devozionismo di pura matrice rurale" : tutto ciò egli condannò aspramente nel
capitolo "De sortilegiis et maleficiis". Constatò, inoltre, con grande dolore,
come tra il suo popolo erano diffusi svariati vizi come l'usura, la bestemmia, la vendetta
privata con frequenti omicidi, la pratica degli aborti, l'alterazione dei testamenti,
l'omertà e la protezione dei briganti. Riscontrò, poi, molti abusi da parte
dell'Università (Comune) e del clero e decise di comminare censure canoniche e pene in
denaro e carcerarie per i trasgressori.
Il Capitolo della Cattedrale e l'Università che erano i principali destinatari dei suoi
decreti si opposero aspramente: i rapporti rimasero a lungo tesi fino a sfociare in una
vertenza davanti al tribunale del metropolita di Conza di cui la diocesi murana era
suffraganea.
Il Coppola, così, vedeva, con grande amarezza, frustrati i suoi sforzi e le sue
coraggiose iniziative pastorali, continuamente osteggiate e bloccate dalla ostilità delle
strutture locali.
L'unica consolazione per il Nostro restava quella di poter curare la sua musa poetica. Egli portò a termine l'impegno che aveva assunto con Ferdinando II, prima di andar via da Firenze: completò il poema "Il Cosmo o vero l'Italia Trionfante" che il granduca gli aveva commissionato e che fu stampato a Firenze, nel 1750, nella Stamperia granducale in due versioni, in folio e in 4°. L'opera, composta di venti canti in ottave, dedicata a Ferdinando II, ha come materia un leggendario episodio della difesa dell'Italia dai barbari Goti, al tempo dell'imperatore Onorio, per opera di Cosmo o Cosimo, discendente di Perseo e mitico capostipite della famiglia dei Medici. Il Melfi nel suo "Dizionario biografico degli Italiani" afferma che il Coppola nel "Cosmo" "tenta la conciliazione tra la funzione encomiastico-cortigiana, che dominava nelle 'Nozze', e la propria vocazione di cristiano e religioso poeta, trattando di una guerra in qualche modo 'santa' e traendo dal suo soggetto tutti i possibili spunti di edificazione morale". |
Con i ventidue canti, in endecasillabi e settenari, del poema,
di natura fortemente pedagogica e formativa, "La verità smarrita, o vero il Filosofo
illuminato", dedicato al pontefice Innocenzo X e pubblicato a Firenze, in 4°, per i
tipi di Amador Massi, il poeta torna ad illustrare allegoricamente la dottrina della
dogmatica cattolica senza più alcun compromesso con la scienza profana. Qui il Nostro,
servendosi degli strumenti forniti dall'esperienza scolastica e dalla tradizione
apologetica cattolica, personifica la Fede che guida il Filosofo al possesso della
Sapienza.
Egli prima della sua morte che lo colse giovane, ad appena cinquantadue anni, alla fine di
gennaio del 1652, nella tranquilla solitudine montana di Muro Lucano, volle fare, nella
prefazione alla sua ultima opera, un consuntivo della sua produzione letteraria ponendo
l'accento sui principi ispiratori dei suoi componimenti poetici che, in perfetta sintonia
con l'insegnamento della Chiesa ed in chiave eminentemente educativa, con le loro
invenzioni fantasiose, tendevano a risvegliare nei cuori umani la devozione della Vergine
Maria.