Parliamo
di Gallipoli. Eugenio ha desiderio di conoscere la storia della città, dove
ha trascorso la maggior parte della sua infanzia, che ha dato i natali ai
suoi avi: medici, giuristi, alcuni di essi mazziniani e massoni, che hanno
dato un importante contributo alla crescita culturale e sociale di
Gallipoli. Mi lascia parlare a lungo e le mie parole diventano un fiume in piena nel
quale egli ben volentieri si immerge. Il suo volto, circondato da una
fluente chioma argentea, che ricorda quello arso dal sole di antichi
pescatori gallipolini, s’illumina e i suoi occhi brillano di commozione
specie quando mi soffermo a parlare del bisnonno Emanuele e del nonno
Ernesto.
Mentre ritorno a Gallipoli in me affiora con forza un sentimento di
ammirazione e di gratitudine verso questo grande del nostro tempo, questo
gigante del teatro mondiale che con il suo ingegno onora la sua terra
d’origine.
Egli va ad aggiungersi a quella numerosa schiera di grandi ed autentici
innovatori che occupano un posto di primissimo piano nella scena mondiale
nella seconda metà del XX secolo per aver svelato assieme al suo Odin
Teatret “la complessità e la centralità dell’arte dell’attore e del suo
corpo come segno drammaturgico. Un’arte che trova linfa e giustificazione
non solo nell’assoluta necessità di poter esprimersi tramite il rigore di un
metodo ma anche tessendo una fitta rete di rapporti con il sociale,
coltivando, in ogni momento, una tensione ed un’energia rivolte sia
all’interno del proprio gruppo artistico e verso il pubblico, sia attente
alla realtà ed alle sue contraddizioni”..
Per questo motivo dopo oltre quarant’anni di presenza, l’Odin continua ad
essere unico e il magistero del regista Barba ancora assolutamente attuale.
Egli nel programma di sala del Sogno di Andersen scrive: “E’ come se una
forza poco sensata [tenga ormai] viva la mia necessità di far teatro. Sono i
motivi per cui continuo. Posso sintetizzarli con una frase: la professione
teatrale è la mia sola patria, e Holstebro la sua casa”..
Ai suoi numerosi allievi, sparsi per il mondo, Barba ha insegnato che il
teatro è “artigianato della dissidenza”, in parole povere, rivoluzione. Esso
deve “sorprendere e scuotere” continuamente chi lo vede e chi lo fa: ogni
spettacolo rappresenta una svolta, il “ritorno a punto zero”. Esso non vuole
né intrattenere né difendere delle tesi, solo porre delle domande, cui ogni
spettatore deve dare una risposta, pochè “l’’arte impegnataa non deve
offrire le risposte giuste, ma porre le giuste domande”. Dell’Odin non sono
dunque importanti le risposte (che non ha, che non dà), ma “la sua capacità
d’interrogare e attizzare dubbi e sospetti”..
La principale peculiarità dell’Odin è quella di concentrarsi nel training
dell’attore insieme con la creazione di spettacoli rappresentati in più di
50 paesi dei cinque continenti..
Questa esperienza di migrazione e viaggio ha avuto una profonda influenza
sul lavoro e sulla filosofia del gruppo che, nel tentativo di trovare un
altro uso del teatro in contesti differenti, ha sviluppato la pratica del
“baratto” sin dagli anni ’70. Il gruppo cioè si propone con un suo training
di spettacoli di strada, improvvisazioni, e la comunità ospite, in uno
scambio/baratto fra culture, risponde con proprie danze, musiche, canzoni,
letteratura orale, cerimonie tradizionali e persino religiose..
Barba non ha mai reciso del tutto il legame con quella terra che lo ha visto
nascere e crescere, nonostante il suo appassionato nomadismo intellettuale
lo spingesse ad eleggere come patria ideale un luogo della mente piuttosto
che un territorio abitato da piccoli uomini. Il “Terzo Teatro”, di cui il
regista è l’indiscusso teorico ed artefice, rivela proprio questa condizione
di appartenenza ad una necessità, invece che a un bisogno..
Era partito da una terra che ha sempre considerato pudicamente cara. “Nel
mio teatro, dice il regista, la camera segreta è la mia infanzia
meridionale. […]. Con la sua camera segreta, il teatro è per me il mestiere
dell’incursione, una radura nel mondo civilizzato”. Non è un caso che per
questo approccio quasi scientifico al mondo dello spettacolo, Eugenio Barba
scelga per la scuola, che fonda nel 1979, questa denominazione::
International School of theatre anthropologyy.
Egli che dal 1974 ha la nazionalità danese oltre al norvegese continua a
parlare l’italiano. Anche i suoi compagni originari della Norvegia - come
quelli che in seguito si sono aggiunti da tutto il mondo - hanno cercato di
non perdere la loro lingua. “E’ stata una scelta - dice Barba - fin
dall’arrivo ad Holstebro cercare di rimanere noi stessi, di conservare
un’identità; un atteggiamento che non intendeva erigere una barriera, bensì
inserire l’Odin in Danimarca come un corpo, più che estraneo, integro,
autonomo, e fondare, diversamente dal solito, un radicamento sul confronto e
la differenza”..
Dando le sue coordinate anagrafiche, il 28 maggio del 2003, il giorno in cui
l’Università di Varsavia gli conferì la laurea honoris causa, dichiarò di
appartenere “a quella generazione di giovani affamati di libri che quando
alzavano gli occhi rischiavano di vedere ossa fra la terra e le macerie
portate via dai camion che ricostruivano l’Europa, dopo la seconda terra
mondiale”, e di aver scoperto “un’altra fame, oltre quella per il sapere e
per i libri”..
Nel cuore di quella vecchia Europa martoriata da un lungo conflitto e che
stava curando le sue vecchie ferite, Eugenio Barba incontrerà Jerry
Grotowski, il primo maestro, verso il quale è stato sempre riconoscente, che
gli fornirà l’esempio della necessità del teatro come laboratorio
permanente..
Barba trascorse la sua infanzia e parte dell’adolescenza a Gallipoli in via
Micetti, nell’abitazione della nonna paterna, Francesca Pedone, vedova del
nonno Ernesto, “una vecchia dai capelli lunghissimi e belli, però bianchi,
morti”, e dove assaporò, troppo presto, ad 11 anni, il dolore per la perdita
del padre Emanuele, un alto ufficiale di fede fascista, morto a 49 anni, il
28 giugno 1947. Una fanciullezza non proprio spensierata, oppressa dalla
eccessiva severità del padre e dal carattere autoritario della nonna. Gli
erano di consolazione solo la madre, Vera Gaeta, napoletana, donna energica
e positiva, figlia di un ammiraglio, ed il fratello maggiore Ernesto..
Momenti di pace li assaporava quando si allontanava dalla sua abitazione per
recarsi in chiesa dove “in un’atmosfera di oscurità e di lumini ardenti, di
ombre e di stucchi dorati, di profumi, di fiori, di persone assorte”,
trovava il “piacere dei sensi”; di spensieratezza quando trascorreva qualche
ora con gli amici nei locali dell’Associazione scoutistica, che aveva la sua
sede nel Palazzo vescovile, o nei campeggi estivi che la squadriglia
scoutistica degli “Elefanti” (egli era il caposquadriglia) organizzava. E
proprio nella sede degli scout io, un po’ più piccolo di lui (ero lupetto),
l’ho conosciuto, negli anni quando anch’io facevo le mie prime esperienze di
vita associata, ispirata ai principi di democrazia e solidarietà..
Dopo qualche anno, con la madre ed il fratello maggiore Ernesto si trasferì
a Roma e nel 1951 iniziò a frequentare, assieme al fratello, a Napoli, il
liceo classico al Collegio militare della Nunziatella, dove per gli orfani
di militari l’educazione era gratuita..
Ben presto si accorse di non aver alcuna propensione per la vita militare.
Nella scuola “l’obbedienza obbligava fisicamente a piegarsi, a sottostare,
ad eseguire meccanicamente il cerimoniale marziale che impegna solo il
corpo. […]. Non era permesso manifestare emozioni, dubbi esitazioni, slanci
di tenerezza, bisogno di protezione. […]. Il valore supremo era
l’esteriorità”..
Allora sentì “il bisogno di sentirsi libero, come avviene quando si ha
diciassette anni, di dissentire e negare tutto quello che ti tiene vincolato
geograficamente, culturalmente, socialmente”. Era il rifiuto della cultura
militare che egli definisce “cultura della corrosione”. Crebbe in lui “la
voglia di non integrar[si], di non radicar[si], di non buttare l’ancora nel
porto, ma evadere, scoprire cosa ci fosse fuori, rimanere estraneo”..
“Questo desiderio di estraneità divenne destino” quando, nel 1954, a 17
anni, dopo la licenza liceale, lasciò l’Italia e in autostop raggiunse
Copenaghen e da lì Stoccolma. A 18 anni si spostò in Norvegia, ad Oslo, dove
lavorò come lattoniere e dove fece il modello al pittore Willi Mildelfart.
Qui conobbe e frequentò alcuni giovani, che avevano partecipato alla
Resistenza contro i tedeschi, che lo ”contagiarono con il sogno di una
società giusta e senza sfruttati” e gli trasmisero “il piacere per il
superfluo necessario”. Nel 1956-57, sulla petroliera norvegese Talabot, che
lo portò come mozzo di macchina in Africa, Asia, America Latina e America
del Nord, scoprì “la concretezza dei principi filosofici di Marx ed
Eraclito”. Successivamente nell’Estremo Oriente ed in Africa “si ubriaca di
musica e di immagini”..
Nel 1957 ritornò in Norvegia. Ad Oslo si iscrisse all’Università (nel
dicembre del 1965 si laureerà in lingua norvegese e francese, e in storia
delle religioni); di giorno lavorava come saldatore e di sera seguiva i
corsi universitari. Qui frequentò un gruppo di giovani che avevano fondatoo
Mot Dagg (Verso il giorno), un movimento di orientamento marxista, che
successivamente fu attivo nel SOSTUD, Socialistisk Studentlag,
l’organizzazione studentesca del partito socialdemocratico. In questa
organizzazione egli diventò abbastanza popolare poiché era “molto più a
sinistra di loro” e per la sua “fede nell’arte come strumento di evoluzione
degli operai”..
Decise di studiare regia ma in Norvegia non esistevano scuole per registi.
Dopo che, ad Oslo, vide il film del regista polacco Andrzej Wajda,, Cenere
e diamantii, decise di andare in Polonia. Dopo un soggiorno di sei mesi
in un kibbuz in Israele, ottenne, dal Ministero degli Esteri italiano, una
borsa di studio per studiare regia a Varsavia. Nel gennaio del 1961 sbarcò
in Polonia, ”nella terra promessa, nella terra di cenere e diamanti", “con
la testa piena di sogni e con il fermo proposito di diventare regista
teatrale”..
Nella Polonia comunista di Gomulka, dove la censura chiudeva un occhio, la
vita culturale e, in particolare teatrale, era fiorente e seguita con
attenzione in tutta Europa. Barba seguì i corsi di regia presso l’Università
di Varsavia e si immerse subito nell’ambiente artistico-letterario della
capitale, dove conobbe e frequentò scrittori, poeti, artisti ed attori..
Ad Opole, una cittadina operaia della Slesia, incontrò Jerzy Grotowski che
dirigeva il Teatr 13 Rzedòv (il nome era dovuto alle tredici file di
poltrone), il cui repertorio era composto di autori d’avanguardia, come
Cocteau o Majakovskij oppure di classici sul tipo Byron o l’indiano
Kalidasa..
Con Grotowski, Barba iniziò “a tessere la ragnatela della [loro] relazione
tendendola sopra un abisso di forze oscure e luminose - nostalgie, necessità
e certezze. Una zona interiore alla quale si possono dare nomi differenti:
viaggio nel profondo della propria dimora o volo al di fuori di essa”..
Egli, interrotti gli studi alla scuola di teatro di Varsavia, divenne
assistente del Grotowski. Alla fine del gennaio del 1962 si trasferì ad
Opole: tra i due s’instaurò “un rapporto misurato, amabile e solidale”, tra
“il vecchio Lama e l’adolescente Kim”; e Barba divenne il “compagno
privilegiato” del regista polacco..
Il soggiorno polacco restò per lui la “svolta della sua vita”, anche se
all’inizio non “era per niente consapevole di partecipare ad una rivoluzione
del teatro e di seguire il condottiero di un’epopea artistica”, e spesso
vedeva “sfumare la sua certezza” che quello a cui assisteva e partecipava
servisse alla sua futura carriera..
Ben presto, però, si identificò “emotivamente e intellettualmente
nell’universo delle idee e del lavoro di Grotowski”, ed ogni altra forma di
teatro gli sembrò “il figlio di una vergine sterile scolpita nella pietra,
magari bellissimo, ma senz’anima”; e “quel piccolo teatro per lui diventò
“tutt’insieme focolare, avventura, passione, religione”, divenendo “una
sfida permanente, un’ossessione, una necessità”..
Così dal Grotowski imparò “a resistere, a opporre resistenza allo spirito
del tempo, a non far[si] spezzare la schiena e a tenere in vita la scintilla
che, pur nascosta in una lontana provincia [Opole], avrebbe appiccato il
fuoco a dieci, cento, mille altre persone”..
Gli anni passati ad Opole nel Teatr 13 Rzedow gli “fecero incorporare una
visione del teatro e un modo di viverlo intellettualmente ed emotivamente,
come tecnica e come aspirazione”, gli “fornirono una terminologia con la
quale riusciv[a] a dialogare con [se] stesso e con i [suoi] attori, una
lingua che era [sua], [loro], personalissima e fugace, che scavalcava le
categorie abituali ed ovvie dei discorsi sul teatro”..
Ben presto in lui si radicarono le certezze che “il teatro è costituito di
radici che germogliano e crescono in un luogo ben preciso, ma è anche fatto
di semi portati dal vento, seguendo le rotte degli uccelli”; che “i sogni,
le idee e le tecniche viaggiano con gli individui, e ogni incontro deposita
polline che feconda”; che “i frutti maturano dalla fatica caparbia, dalla
necessità cieca e dallo spirito di improvvisazione e contengono semi di
nuove verità ribelli”..
Nel 1963, da luglio a dicembre, compì un viaggio in India accompagnato da
Judy Jones. Nel Kerala, a Cheruthuruthy, studiò il teatro Kathakali, i cui
spettacoli lo sorpresero e lo ammaliarono. Egli al suo ritorno ad Opole
scrisse le sue osservazioni sul Kathakali e adattò alcuni “esercizi” per il
training degli attori del Teatr-Laboratorium 13 Rzedòw..
Nell’aprile del 1964, non potendo più rientrare in Polonia dalla Norvegia,
dove si era provvisoriamente recato, perché “persona non grata”, si stabilì
ad Oslo dove il 1° ottobre 1964 fondò, con gli attori norvegesi Else Marie
Laukvik,Torgeir Wethal,Tor Sannum, Anne Trine Grimmes, l’Odin Teatret e
dove, un anno dopo, fondò la rivista “TTT”, “Teatret Teori og Teknikk” che
pubblica fino al 1974 numeri monografici e volumi.. Nel febbraio dello
stesso anno era uscito in Italia (editore Marsilio) il suo Alla ricerca del
teatro perduto..
Il primo spettacolo dell’Odin Teatret e prima regia di Barba,,
Ornitofilenee (Gli amici degli Uccelli))(1965), da un testo allora
inedito di Jens Bjorneboe, fu rappresentato in uno spazio teatralmente non
convenzionale, simile ad un’aula di tribunale dove gli attori (erano solo
quattro, quelli che avevano resistito di un gruppetto di partenza di undici)
recitavano in mezzo al pubblico, “trasformandosi continuamente in personaggi
diversi e passando dal registro lirico a quello tragico, fino al grottesco,
attraverso una ricca espressione vocale e gestuale”. Barba restò “stupito
che la rappresentazione facesse un effetto così inaspettatamente forte sugli
spettatori”, e affermò che “lo spettacolo sembrò dimostrare tutte le
inusitate possibilità espressive dell teatro poveroo”..
L’autorevole critico teatrale danese Jens Kruuse, sull’importante quotidiano
Jyllands-Posten, scrisse di aver vissuto “un’esperienza incredibilmente
avvincente”; che gli attori norvegesi dell’Odin Teatret “non recita[vano]
affatto” ma “viv[evano] un’opera poetica”; che quello dell’Odin era “un
teatro popolare, vivente, esistenziale, utile, con humor, clownerie,
tragedia, umanità”..
Nel giugno del 1966, l’Odin si trasferì ad Holstebro, in Danimarca, una
cittadina di 18.000 abitanti, nello Jutland occidentale. Il Comune, che
aveva deciso di intraprendere una politica culturale per sfuggire al
grigiore della provincia, aveva offerto un locale fuori città ed una
sovvenzione annua di 15.000 dollari. In cambio il Barba aveva promesso di
dar vita ad un “teatro laboratorio”: ill Nordisk Teaterlaboratoriumm.
Il teatro di Barba dopo un anno di permanenza nella cittadina danese scatenò
numerose polemiche: molti s’interrogavano se valesse la pena di spendere
denaro pubblico per “mantenere un’attività teatrale di nicchia così strana e
incomprensibile”..
Gli amministratori di Holstebro resistettero alle polemiche e i numerosi
critici, a distanza di molti anni, hanno dovuto constatare che “l’Odin
Teatret è l’istituzione culturale che più di ogni altra ha marcato il
profilo culturale di Holstebro”; che “l’Odin Teatret ha reso Holstebro una
parte del mondo”; che “Holstebro, dal canto suo, ha restituito al teatro
quell’ancoraggio, cioè tranquillità di lavoro e sicurezza, che è stato un
presupposto perché continuasse a svilupparsi”..
Col passare degli anni l’Odin Teatret diventò sempre di più il centro di
un’importante attività di seminari internazionali, “i seminari
interscandinavi”, dedicati ai professionisti del teatro (si terranno tutti
gli anni fino al 1976))
Ogni anno l’Odin organizzava due seminari teatrali internazionali; uno di
una settimana, in primavera, intorno ad un tema specifico (commedia
dell’arte, il linguaggio scenico, lo scrittore ed il teatro di gruppo,
teatro indonesiano, teatro giapponese); l’altro, di due-tre settimane, in
luglio, sul training. Dal 1966 al 1969 vi partecipò il Grotowski. Vi
parteciparono, come maestri, fra gli altri, Ryszard Cieslak, Dario Fo,
Etenne Decroux, Jacques Lecoq, i fratelli Colombaioni, Charles Marowitz,
Otomar Krejka, i maestri del teatro balinese, i maestri delle forme
classiche di danza e di teatro Shanta Rao, Krishanam Nambudiri, Sanjukta
Panigrahi, Ragunath Panigrahi, Uma Sharma..
I seminari erano per quelli dell’Odin una possibilità di conoscere il lavoro
di altri importanti artisti ed occasione per riunire amici e simpatizzanti.
Inoltre si promuoveva “un’attività che nessun’altra istituzione svolgeva in
quei tempi in Danimarca, giustificando la denominazione di ‘laboratorio’”.
Si inaugurava, così, una tradizione che durò fino alla metà degli anni ’70..
Dopo aver rappresentato, nel 1967,, Kasparianaa, da un testo scritto da
Ole Sarvig, l’Odin Teatret raggiunse fama internazionale nel 1969 conn
Feraii, da un testo scritto da Peter Seeberg..
L’irrompere dii Feraiifu “uno dei segnali più espliciti dei processi
teatrali in gioco, che affidavano in fondo allo spettacolo la missione di
riaggregare la comunità attorno ai suoi ‘archetipi’ - remoti e contemporanei
- al fine di ritrovare un momento collettivo ed emotivo che ridesse senso ad
una comunicazione stanca, senza sintonie, senza emozioni, e nuova vita a
quel teatro da Peter Brook ormai classicamente definito o bollato come
‘mortale’”..
L’inizio degli anni Settanta segnò per l’Odin Teatret il passaggio dal
periodo della “stanza”, dello “spazio chiuso”, della “clausura”, dello
“spazio scenico di concentrazione” ovvero della sperimentazione svolta
all’interno del laboratorio e degli spettacoli per non più di 60/70 persone,
al periodo dello “spazio aperto” della fase dei baratti interculturali..
Ha inizio così l’esperienza di migrazione e viaggio che ha avuto una
profonda influenza sul lavoro e sulla filosofia del gruppo che, nel
tentativo di trovare un altro uso del teatro in contesti differenti, ha
sviluppato la pratica del “baratto”. Il gruppo, cioè, “si propone con un suo
training di spettacoli di strada, improvvisazioni e la comunità ospite - in
uno scambio/baratto fra culture - risponde con proprie danze, musiche,
canzoni, letteratura orale, cerimonie tradizionali e persino religiose”..
Ecco l’Odin alla Biennale di Venezia, il 2 ottobre 1972, conn
Min
fars husMin
fars hus
(La casa
del Padre)): trattava della vita e dell’opera del Dostoevskij e si
presentava con una frase dello scrittore russo come epigrafe. Dopo le
repliche a Roma nel gennaio del 1974, l’Odin portò lo spettacolo in Sardegna
(San Sperate e Orgosolo), dove gli attori nordici si esibirono “con
disponibilità, ma non senza difficoltà, di fronte ad un pubblico disabituato
al silenzio, estraneo al circuito dei festival o delle università”, e dove
“gli spettacoli si conclusero con un grande happening”. Barba, fra il 1974 e
il 1975, nel Salento, ed in particolar modo a Carpignano Salentino, in un
ambiente in cui “bisognava rispettare sempre le leggi e le usanze del
luogo”, pur tra “difficoltà dubbi e contingenti incomprensioni”, realizzò
“la prima organica esperienza di baratti” mettendo in moto un processo che
culmina con la l’offerta reciproca tra una comunità agricola ed un gruppo di
attori. Accade così che attori di ogni dove fanno training nelle piazze,
montano spettacoli in strada, improvvisano tra case basse e cortili. E dai
sagrati delle chiese rispondevano gli ospiti con danze e musiche, canzoni e
racconti, con cerimonie tradizionali e persino religiose. “L’atmosfera che
si respirava era quella di un fitto scambio su una frontiera antropologica”.
Attraverso le feste di baratto, si crearono ”singolari e inedite forme di
aggregazione sociale, che travalicavano le divisioni di classe, di
generazione, i pregiudizi”. La pratica del baratto di teatro caratterizzerà
l’azione sociale dell’Odin anche negli anni successivi, accanto alle normali
tournées. Il critico teatrale Per Moth su un numero della rivista danese
“Rampelyset”, dedicato all’Odin Teatret, in un articolo intitolato I en
virkelighed uden teaterr (In una realtà senza teatro)) scrive della
profonda trasformazione dell’Odin, nel Salento, da teatro d’élite a teatro
dal peculiare profilo “popolare”. E l’Odin confermerà la sua caratteristica
di “teatro popolare”, nel febbraio 2005, nelle dimostrazioni di lavoro, che
esso tenne a Torino, con gli anziani delle case di riposo, nell’ambito del
progetto L’Odin per Torino, quando dimostrò “la capacità di valorizzare la
vita comune; di incastonarla e santificarla in un clima di festa; di
recuperare le esperienze personali e i materiali più correnti, dagli oggetti
alla musica, ai ricordi e alle emozioni, con assoluta essenzialità, senza
prolisse mediazioni intellettuali”. L’enclave teatrale dell’Odin, ormai, si
presenta all’esterno con una doppia faccia: “gli spettacoli per pochi
spettatori, ambienti raccolti; e gli spettacoli aperti, affollati,
grotteschi. […]. Questo doppio binario, con un repertorio più vasto,
caratterizzerà anche gli anni seguenti, diventerà anzi uno degli elementi
costitutivi dell’Odin”..
Nel 1976 l’Odin Teatret partecipò al Festival internazionale di Caracas con
lo spettacoloo Come! And the Day will be Oursass. Organizzò baratti ed
incontri di lavoro e spettacoli nelle strade e con i suoi spettacoli
visiterà nella Giungla del Venezuela gli indiani Yanomami..
Barba nel 1979 fondò l’ISTA, International School of Theatre Anthropology.
Essa “non ha una forma rigida, è un’ambiente, una nebulosa. Il solo momento
in cui assume forma definita è quando si realizzano le sue sessioni
(chiamate “Università del teatro eurasiano). […]. Riunisce persone che fanno
teatro provenienti dai paesi, dalle tradizioni e dalle specializzazioni più
diverse. […]. Ciò che rende possibile l’incontro è un modo discorde di
pensare e una comune voglia di porre domande al comportamento dell’attore”.
Per dirla con uno dei motti utilizzati dal suo fondatore, l’ISTA è uno
spazio-tempo in cui imparare ad imparare. La prima sessione si tenne a Bonn
nl 1980 e durò un intero mese: vi parteciparono come maestri artisti da
Bali, Taiwan, Giappone ed India. Barba in quell’occasione riscontrò negli
attori e danzatori asiatici gli stessi principi che aveva visto all’opera
negli attori dell’Odin Teatret. Molte altre sessioni si sono tenute in
Italia, specialmente in Calabria..
Dal 1990 in poi, di sessione in sessione, si sono sviluppati dei veri e
propri spettacoli con la regia di Eugenio Barba, ed un vero e proprio
ensemble, che ha preso il nome di “Theatrum mundi”, i cui spettacoli sono
eventi d’eccezione ai quali prendono parte assieme ai componenti dell’Odin
Teatret numerosi maestri ed artisti di diverse tradizioni teatrali, diretti
dal Barba..
Dopo aver partecipato al Festival di Caracas, nel 1976, Barba negli anni
Ottanta portò l’Odin nei Paesi dell’America Latina (Perù, Colombia, Messico,
Argentina, Uruguay, Brasile) che per lui “divenne un punto di orientamento
essenziale per tenere deste le domande sul senso del [suo] fare teatro”..
Qui presentò spettacoli, baratti, tenne seminari ed incontrò enclaves
teatrali che non facevano teatro “tradizionale” e neppure un “teatro
d’avanguardia”, “gruppi quasi sempre autodidatti, non benedetti
preliminarmente da quel rispetto che circonda chi entra in modo
riconoscibile nell’arte teatrale”. Era il Terzo Teatro, una scelta
esistenziale, che “altrove era minoranza” ma che in America Latina “occupava
quasi l’intero paesaggio”..
Alcuni di questi gruppi teatrali latinoamericani, egli, nell’autunno del
1977, li aveva ospitati a Belgrado, dove aveva organizzato un Atelier del
Teatro di Gruppo all’interno del Festival del Teatro delle Nazioni, e con
essi aveva tenuto “uno spettacolo collettivo lungo un’intera giornata”. Nel
presentarli parlò, per la prima volta, di “Terzo Teatro” che, come afferma,
“non indica una linea di tendenza artistica, una ‘scuola’ o uno stile..
Indica un modo di dar senso al teatroo”. La condizione del Terzo Teatro è
ricerca del senso che vuol dire “soprattutto personale scoperta dell
mestieree”; e mestiere vuol dire “la costruzione paziente di una propria
relazione fisica, mentale, intellettuale, emotiva con i testi e gli
spettatori […]. Vuol dire comporre spettacoli che sappiano rinunciare
all’usuale pubblico teatrale e sappiano inventarsi i propri spettatori. Vuol
dire saper cercare e trovare denaro senza incarnare il valore del teatro
previsto da coloro che per motivi economici, ideologici o culturali
investono risorse per favorire lo sviluppo della vita teatrale; […] e solo
per un piccolo resto è forza dell’ideale, spirito di rivolta”..
Negli anni Ottanta, che per Barba hanno rappresentato “un inverno che ha
gelato molte esperienze sociali, politiche e teatrali”, l’Odin continua a
fare il “’teatro povero’ con nessuna concessione alle mode, con gli stessi
temi e in parte gli stessi carismatici attori”..
A partire dal 1980, il lavoro all’interno dell’Odin assume due ulteriori
dimensioni: ai lavori di gruppo si aggiungono e si alternano linee
individuali di ricerca. Agli “spettacoli nuovi”, preparati dal gruppo nel
suo insieme, per pochi spettatori in ambienti raccolti, si aggiungono
spettacoli dalle dimensioni più piccole realizzati dal lavoro indipendente
di uno o due attori, i Kammerspiele, che a differenza degli “spettacoli
nuovi”, che vengono rappresentati per 3-4 anni, restano in repertorio a
lungo così come le dimostrazioni-spettacolo..
Sono degli anni Ottanta ill Vangelo di Oxyrhincuss (1985) ee Talabott(1988) che vengono presentati in periferia, dove l’Odin viene a contatto con
“un pubblico più differenziato rispetto a quello omogeneo dei festival e
delle élite delle grandi città”, mantenendo vivo il suo fondamentale impegno
di “far provare esperienze” allo spettatore, “ricostituendo un livello
radiante per quanto ‘invisibile’ del teatro, sul quale la vita dello
spettacolo è fluita”..
A partire dal 1991, l’Odin organizza ad Holstebro, ogni tre anni, una
“settimana di festa” (Holstebro Festuge), ospitando gruppi ed artisti
stranieri, collaborando con i gruppi e le associazioni culturali della
città, intrecciando teatro, musica, danza, arte figurativa, conferenze e
dibattiti sull’interculturalità..
Ogni anno, invece, organizza nella propria sede una “Odin Week”, durante la
quale gruppi di 30-40 persone provenienti da diversi paesi vengono immessi
nella vita dell’Odin, assistono a tutti gli spettacoli, partecipano alla
vita quotidiana del teatro, svolgono lavoro pratico con gli attori e con
Eugenio Barba..
Gli anni Novanta conn Kaosmoss(1993) e conn Dentro loo
scheletro della balenaa(1997), l’Odin torna sui temi indissolubilmente
legati alla propria esperienza, fitta di contatti con l’Europa dell’Est,
l’America latina, il Terzo Mondo: “la violenza, la crudeltà, l’assurdo della
storia, nella quale le grandi idee si capovolgono nell’esatto contrario,
nella ferocia delle dittature, nel furore delle stragi”..
Segue nel 19988 Mithoss, dedicato al regista uruguayano Atahualpa del
Cioppo, tra i fondatori del teatro moderno dell’America latina, che “è la
biografia impietosa” del XX secolo: uno spettacolo “su valore e morte del
mito […], che “è soprattutto unn ritualee, meglio un graffiante requiem
del Novecento, le sue ideologie, le rivoluzioni, le promesse, le ansie del
progresso”..
Lo spettacolo ci mostra “il carnaio dell’umanità, un terreno da cui
fioriscono mani mozzate, come anemoni; l’imbroglio degli stregoni del
potere; il sacrificio dei ‘sommersi’; la grottesca desolazione dei
‘salvati’”..
Dei primi di ottobre del 2004 è ill Sogno di Andersenn, presentato a
Holstebro in occasione della celebrazione del quarantennale dell’Odin
Teatret. Questo spettacolo prende lo spunto da una biografia e dalla
dimensione creativa di un grande personaggio (Hans Christian Andersen) che
rappresenta un mito nazionale, “un simbolo di una Danimarca gentile e
bambina”. “In questo Sogno - scrive Franco Perrelli” - che riguarda il
nostro mondo suggerito per allusioni, quasi per cenni, senza enfasi
profetiche, c’è un malinconico sotterraneo presagio di apocalisse”..
Nel 2006 vengono presentatii Don Giovanni all’Infernoo eUr-Hamlett.
Inn Don Giovanniila figura del grande libertino viene riletta nella
sua sostanza di archetipo, non solo attraverso le fonti lasciate dal suo
primo creatore Tirso de Molina, ma anche interrogando il Don Juan aux Enfers
di Charles Baudelaire. Barba ne guarda “l’originaria sostanza scellerata”
per mostrarla senza le mediazioni operate dalla letteratura, che ne ha fatto
un gioiello d’arte “incapace di fare paura”. L’Odin mette in rilievo
“l’universalità del personaggio radicata in miti ancestrali, e nello stesso
tempo la modernità evocata dal suono delle musiche di Mozart, dalla loro
energia destabilizzante”. “Con un tuffo nel mistero che unisce amore e
morte, commedia e tragedia, inganno e realtà, lo spettacolo, a tratti
gioioso, malinconico e feroce, pone inquietanti interrogatoivi sull’uomo”..
Ur-Hamlettmette in scena un Amleto arcaico e nostro contemporaneo,
cupo guerriero di fattezze afro-brasiliane. Dice Barba ”La storia del capo
vichingo spregiudicato di nome Amlethus fu raccontata intorno al 1190 in
latino da Saxo Grammaticus, primo scrittore in Danimarca, che ispirò
Shakespeare. E’ a lui che ci siamo rifatti”. Hamlet è un signorotto dello
Jutland che nella lotta per il potere si finge pazzo per non venire ucciso:
un professionista della violenza, “esperto nell’arte di far fuori gli
avversari con stratagemmi e malefici, un capo scaltro, un tirannicida che si
fa tiranno”. Dice ancora Barba “Consideroo Ur-Amlettuno spettacolo
sulla Storia. Il Castello di Hamlet assediato non di fantasmi dell’aldilà ma
dal suo sottosuolo, dai ratti portatori di peste che emergono come miasmi da
strati oscuri da una società pulita solo in apparenza. Sono loro gli
invasori, i poveri affamati, in cerca d’asilo, che arrivano da fuori”. Così
lo spettacolo si presenta come un rituale visionario, drammatico, grottesco,
una babele di ritmi, musiche, lingue; “un dramma che scaturisce dalle
viscere oscure dei tempi e riesce ad essere contemporaneo grazie alla babele
dei linguaggi, alle suggetioni cosmopolite messe in campo”..
Nel 2008 ill The Marriage of Medeaa. E’ uno spettacolo itinerante che
riunisce il nucleo storico dell’Odin Teatret, il gruppo balinese Gambuh Desa
Batuan Ensemble, Augusto Omolù e Cleber Da Paixao e un gruppo di attori di
varie nazionalità, che attraversano i vari sobborghi e periferie di una
città, dando luogo a una successione di baratti culturali con associazioni,
istituzioni e minoranze etniche del luogo, i cui costumi e riti si perdono
nel contesto metropolitano, mirando “ad unire queste dinamiche di convivenza
e di relazioni sociali, rendendo la frammentata realtà urbana teatrale
attraverso la reciprocità”..
Questi i numerosi riconoscimenti che il mondo intero ha attribuito ad
Eugenio Barba::
- Festival Premio Roma, Italia (1969)..
- BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1974)..
- The Danish Academy’s Kjeld Abell Award, Danimarca (1980)..
- The Mexican Theatre Crutics Prize for best foreign production, Messico
(1984))
- BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1986)..
- Diego Fabbri Prize, Italia (1986)..
- Doctor Honoris Causa, University of Arhus, Danimarca (1988)..
- Prize “Gallo de Habana” Casa de Las Américas, Cuba (1994)..
- Reconnaissance de mérite scientifique, University of Motreal, Canada
(1995)..
- Cittadinanza onoraria di Carpignano Salentino, Italia (1996)..
- Cittadinanza onoraria di Pontedera, Italia (1997)..
- International Prize “Luigi Pirandello”, Italia (1997)..
- Doctor Honoris Causa , Università di Bologna, Italia (1999)..
- Doctor Honoris Causa University of Ayacucho, Argentina (1999)..
- BITEF Grand Prix, Iugoslavia (1999)..
- Doctor Honoris Causa, Istituto Superior de Artes, Havana (2002)..
- Doctor Honoris Causa, Università di Varsavia, Polonia, (2003)..
- Doctor Honoris Causa, Università di Plymuth, Gran Bretagna, (2005)..
- Doctor Honoris Causa, Academyfor Performing Arts, Hong Kong (2006)..
- Doctror Honoris Causa, Instituto Universitario Nacional del Arte (IUNA),
Buenos Aires, Argentina (2008)..
Il 19 aprile del 2000 dall’Università di Copenaghen gli fu conferito il
prestigioso Premio Sonning. E’ il più prestigioso premio scandinavo dopo il
Nobel. Esso, ogni due anni, viene assegnato ad una personalità che abbia
contribuito al progresso della cultura europea. Tra gli altri lo hanno
ricevuto Winston Churchill, Albert Schweitzer, Laurence Olivier, Danilo
Dolci, Karl Popper, Hannah Arendt, Dario Fo, Simone de Beauvoir, Ingmar
Bergman, Vàclav Havel, Gunter Gras..
In quella occasione il regista pronunciò una straordinaria allocuzione. Un
discorso che è sintesi e commento di un’esperienza impareggiabile e che si
pone come ponte tra un glorioso passato ed un futuro aperto ai giovani per
raggiungere i quali gli spettacoli concepiti dall’Odin “si debbono
trasmutare in libri che ardono” chiamando lo spettatore a “risolvere in
prima persona l’enigma di uno spettacolo-sfinge pronto a divorarlo”.
All’attore il compito di dover “aprire gli occhi dello spettatore con la
stessa delicatezza di quando chiudi gli occhi di una persona appena morta”
nella consapevolezza di non perdere mai un’ideale tensione senza dimenticare
“che un buono spettacolo non migliora il mondo, e che un cattivo spettacolo
lo rende più brutto”. E il Barba aggiunse: “la nostra origine è stata
l’ombra, ed è nell’ombra che preferiamo vivere. E’ nell’anonimo lavoro
quotidiano che incontriamo la sfida sempre uguale che mette alla prova
l’intensità e la credibilità delle nostre motivazioni. Siamo venuti dal buio
e auguriamoci che quando scompariremo nel buio il nostro ultimo sogno sia
come il primo, quello che avevamo da giovani: essere come i nomadi San del
deserto Kalahari che si muovono in direzione dei lampi, perché dove c’è
tempesta, c’è acqua, vegetazione, vita”..
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