Due scapestrati amici di
cuore
Francesco Leopizzi ed Ernesto Barba
ad Aldo de Bernart
E' nel giusto Aldo de
Bernart quando definisce Francesco Leopizzi scapigliato, io aggiungerei romantico, come
scapigliato romantico fu anche il suo caro amico Ernesto Barba, poeta e giornalista.
I due vissero la loro giovinezza e produssero la maggior parte dei loro versi nel periodo
in cui nell'Alta Italia, e specie nella Lombardia e nel Piemonte, si affermava la corrente
letteraria della Scapigliatura; e di essa succhiarono consapevolmente ed a volte
inconsapevolmente alcuni umori. Chi scorre la loro biografia e prende in esame i loro
componimenti poetici si accorge che il loro modo di vivere, le loro piccole dissipazioni,
le loro stranezze, sono le stesse che caratterizzarono alcuni degli scapigliati lombardi.
Ambedue amarono intensamente la loro terra e le donne alle quali chiedevano tutto o nulla.
Criticarono aspramente la società in cui vivevano che appariva loro fondata su un crasso
materialismo egoistico, negatore di ogni ideale, ed incapaci di approdare alla costruzione
di valori nuovi si rifugiarono spesso nell'evasione e nel sogno. Il loro anticonformismo,
la loro sensualità inquieta ed a volte allucinata li condusse ad un contrasto
esasperatamente romantico, vissuto con abbandono totale, che portò il Barba al ripudio
della vita e che nel Leopizzi si disciolse nel riso e nello scherzo, nel rifugio negli
affetti familiari, per giungere, poi, all'appagamento e alla rassegnazione.
Dalla mente del Leopizzi, quasi sempre dialettale, si sprigionarono con sanguigna
rusticità le battute più salaci ed esplosive, le critiche più piccanti, gli scherzi
più irriguardosi. Nella sua poesia, che si nutrì di succhi dialettali, di satira e di
ironia, si avverte spesso un anelito di rivolta che affonda le sue radici in questa terra
quasi ricordo di antiche miserie contadine, di soprusi e di slanci. Egli si espresse con
libertà di giudizio, con spregiudicatezza, con rude onestà suscitando molte volte la
disapprovazione e l'irritazione di un radicato "conformismo puritano".
La poesia del Barba riflette una sensibilità tormentata, intimamente autobiografica, che
ora insiste sulla infelicità dei rapporti umani, ora su soluzioni fantastiche1, sempre, comunque, su un egocentrismo appassionato.
Nei componimenti del Barba è quasi sempre presente il motivo dell'amore, che gradualmente
diviene tormento ed infine follia (Toto corde), dell'avversione clericale (Ad un corvo dal
collare e Preparatio ad missam) e la ricerca del rapporto arcano, del "mistico
connubio" che lega tutte le forme di vita, dagli astri in cielo alla minuscola
rondine (Primo-Vere): tentativo quest'ultimo di cogliere il segreto della vita in tutte
quelle manifestazioni d'essa, che non contaminate dalla ragione umana, si suppone possano
direttamente esprimere il principio divino posto al governo del mondo.
I suoi componimenti politici denotano un continuo oscillare fra uno smarrimento spirituale
e un senso angoscioso di crisi irreparabile, conseguente al tramonto degli ideali
risorgimentali, fra un'ansia di romantici ideali e il sentimento scorato della loro
ineluttabile fine. In essi egli "assurge a tutte le altezze della poesia civile"
e "la poesia venia fuori sacrata alla patria ed ai martiri di essa "(A Francesco
Valentini, Giorgio Imbriani, A Goffredo Mameli, A Giuseppe Mazzini, Ai caduti di Vigliena,
Ei dorme). Di contro, però, all'esaltazione dei martiri e degli eroi italiani vien fuori
la rabbia per "le larve nefaste" che "cancaneggian su polve d'eroi ",
la delusione e l'amarezza per "il vil destino dell'Italia unita", per "il
turpe mercato" che si faceva della "madre comune", e per le infamie di cui
si nutriva "l'età servile". Infine "il suo canto squillava incitamento di
riscossa ai morenti d'inedia"2, "all'intrepida canaglia", "alla falange che balda
s'avanza", "al popolo che pugna e che soffre", ed intona il miserere
"al secolo banchiere in cui regna il furto ed il male" (Avanti, Carme ribelle).
Il tema della morte è quasi sempre presente in molti suoi versi: quest'ultimo non sarà
mai addolcito dal sentimento religioso e a volte, ossessionato dal senso del disfacimento
del fisico (Voluptas, Olga), avverte negli aspetti de corpo femminile la presenza continua
ed incombente della morte. Solo negli ultimi momenti della sua vita, quando ha deciso di
togliersi la vita egli cerca di conciliare
Mentre nei versi del Leopizzi si avverte una tendenza antiletteraria caratterizzata da una
continua ricerca di un linguaggio parlato che consente un'adesione al vero, senza
diaframmi letterari e culturali, quelli del Barba rivelano lo sforzo dell'invenzione di un
linguaggio prezioso ed allusivo capace di suggestioni arcane.
Francesco (Checco) Leopizzi nacque a Gallipoli il 2 aprile18533 da Pasquale, proprietario, e Anna Maria Stefanelli, in una casa sita
nella Strada Pizzolante. Si trasferì a Parabita intorno al 1876 per occupare, come egli
dice, lu mpiecu de pustieri4, e dove l'11 ottobre 1883 sposò Maria Concetta Cherillo.
Il Vernole lo ha ascritto alla categoria degli illetterati, cioè tra quei poeti
dialettali che "non sono baccellieri, che non sanno di latino - quelli che non sanno
cosa significhi prosodia o metrica eppure il loro verso è impeccabile - quelli che
seguono il ritmo appreso nelle canzoncine materne - quelli che compongono con musicalità
cadenzata sulle corde della chitarra, come l'antico Aedo componeva sulla lira"5. Così, ancora, si esprimeva nei suoi riguardi: "[
]
permeato di quella distinzione signorile ch'è stata sempre dote della sua casata, fu
sbarazzinesco sin dall'infanzia. Nelle scolette tabaccose di quei tempi imparò la
santacroce6 e l'abaco7 tra lo scambio di pizzicotti e di sberleffi, mentre tra le acredini
delle tirate d'orecchio professorali imparò più birichinate che prosodia: ma con i
compagni litigava e cazzottava in versi. Forse verseggiava sin dal seno materno, tanto
vero che la sua prima poesia la pubblicò cantandola nel 1868, a 15 anni"8.
Il Leopizzi già da bambino suonava la chitarra e su di essa imparò la prosodia e la
metrica: "al tocco delle corde (e non già delle dita) commisurava la cadenza dei
versi che zampillavano dalla congenita arguzia, e intanto sgorgava da lui il commento
musicale estemporaneo, fatto di poche note ritmiche, senza accidenti, semplici,
saltellanti e briose o cantilenate, a seconda dell'argomento trattato, e secondo la
millenaria tradizione popolare"9.
Estemporanei furono la maggior parte dei suoi componimenti poetici in vernacolo che
esponeva, cantandoli, accompagnandosi con la chitarra. Solo in età adulta egli trascrisse
a memoria le sue poesie. Sempre il Vernole ci dice che Il manoscritto era composto di 216
pagine10: le
prime 83 pagine contenevano composizioni poetiche in italiano non prive di qualche pregio;
nelle altre 133 c'erano prose di rubriche umoristiche e tutti i suoi componimenti
dialettali, molti dei quali pubblicati sui giornali gallipolini Mamma Sarena e Spartaco e
su quello parabitano L'Alba.
Nel 1902 il suo amico Bernardo Ravenna11"con
affettuoso inganno gli carpì il testo di 28 poesie inedite" che pubblicò in un
volumetto stampato dalla Tipografia Gaetano Stefanelli di Gallipoli, con il titolo
Capricci postumi di Candido Addome. Il Ravenna italianizzò in Candido Addome lo
pseudonimo Lu ventrijancu con il quale si firmava il Leopizzi nella maggior parte dei suoi
componimenti poetici12.
Ma quale il significato di questo pseudonimo? Secondo il Vernole "Checco, memore
dell'epiteto Ciucci de Gaddipuli corrente in provincia, volle rivendicare la sua
gallipolinità firmando giocondamente Lu ventrijancu, dalla bianchezza del ventre di quel
paziente animale"13.
Il de Bernart ci dice, invece, che "l'appellativo di ventrijancu era stato affibbiato
dai gallipolini ai parabitani, i quali recandosi al mare per i bagni mostravano il ventre
bianco, non ancora abbronzato dal sole come era invece quello dei gallipolini"14, e
che "l'arguto Checchino", accolto dai parabitani con rispetto e simpatia, volle
fregiarsi di questo appellativo.
Ernesto Barba nacque a Gallipoli il 15 novembre 1862 da Emanuele e Addolorata Bono. Fu
battezzato il 20 novembre con i nomi Ariovisto, Antonio, Federico, Giuseppe, Ernesto15. Il
25 aprile 1895 sposò Francesca Pedone, figlia di Domenico Antonio e Carmela Messina,
nella Villa di campagna di Federico Arlotta, in contrada Cuti.16 Si
laureò in Giurisprudenza presso la Regia Università di Napoli, l'11 giugno 1888, con la
tesi di laurea "Il Duello". Fervente repubblicano e massone17, fu
amico dei parlamentari radicali Giovanni Bovio e Matteo Renato Imbriani, e del socialista
napoletano Pasquale Guarino. Da studente partecipò, a Napoli, a tutte le dimostrazioni
antimonarchiche ed anticlericali e scrisse apprezzati articoli sul Fascio della Democrazia
di Roma, sul Giordano Bruno ed Arte Sebetia di Napoli, sul Cittadino di Castellammare, su
Scintilla di Caserta, su Comedia Umana di Milano. Dal 1890 al 1901, a Gallipoli, militando
nelle file del Partito Democratico Repubblicano prima e nel Partito Conservatore dopo,
ricoprì numerose cariche pubbliche nell'Amministrazione comunale, mantenendosi sempre
fedele al programma repubblicano. "Apostolo di verità, amante del proletariato,
difensore dei conculcati", strenuo combattente contro "il monopolio di
amministrazioni consortesche", fu uno dei fondatori del Circolo Socialista di
Gallipoli al quale appartenne per poco tempo poiché in dissenso con i suoi amici e
compagni che "cominciavano dal diritto sentiero a deviare"18.
Occupò la carica di Direttore didattico, di membro della Congregazione di Carità, di
membro del Consiglio di amministrazione della locale Banca popolare, e di
Vice-Conciliatore. Esercitò onestamente e dignitosamente la professione di avvocato,
spesso disinteressatamente e gratuitamente. Fu autore di numerosi componimenti poetici in
lingua, molti dei quali pubblicò, nel 1888, nel volume "Scintille" dedicato
alla venerata memoria dell'illustre padre. Della pubblicazione ne diede notizia lo
Spartaco dell'8 aprile 1888 sul quale apparve la recensione di A. Roberti che così si
esprimeva "Chiuso il libro, dopo la rapida lettura delle 80 pagine che formano il
volumetto, trovate che molte di quelle scintille hanno acceso in cuor vostro una fiamma di
sentimento e di passione, del fiero sentimento della patria, della passione dei primi
amori. Che finezza di versi! molto dissimili da quelle sciocchezze che si leggono da per
tutto. Son 35 brevi poesie di soggetto vario, [
[, quantunque, due sian le note di
intonazione: Patria e Amore. [
]. Son tutte poesie scritte con spontaneità, facile
estro, nelle quali aleggia nobilmente un'aura di gentilezza amorosa e di profondo
sentimento di patria. E' poesia vera, perché sgorgata dal cuore ed ai cuori
rivolta".
Ecco cosa scriveva la Rivista letteraria di Napoli "Cronaca Azzurra": "I
versi del Barba sono ispirati a la patria ed a la libertà., ed egli ha la fede
repubblicana ed il santo ateismo del naturalista, che son fonte pura e perenne di poesia e
di giovinezza di cuore. Il Barba, ne le poesie politiche e specialmente in quelle a
Valentini (Francesco Valentino), Oberdan, Mazzini, Garibaldi, assurge a tutte le altezze
de la poesia civile ed in alcune strofe ci ricorda il Mameli ed il Poerio. [
]. La
poesia in lui, che ha l'anima di artista, sarà sempre tal poesia che in mezzo a quella
letteratura eviratrice ammorbante l'Italia, ci farà ribollire il sangue repubblicano ne
le vene e ci farà ripetere col Cavallotti: Se dal sonno ridesta gli ignavi, / Infecondo,
no, il carme non è"19.
L'Emancipazione, organo del Partito Repubblicano di Roma così si esprimeva: "In
mezzo allo scetticismo ed a l'opportunismo presente, Ernesto Barba eleva sonante l'inno e
la fede, a l'entusiasmo, a l'avvenire men triste de la patria nostra. Egli, dando prova di
bel coraggio, sa spesso aguzzare l'acuto strale del sarcasmo per flagellare i giovincelli,
che si avvoltolano nel fango e si pascono di sudiciume; nonché, contro la menzogna
politica e del fanatismo, sa trovare la nota calda e gentile per gli alti sentimenti
civili, umani. Nei suoi versi brilla l'originalità del pensiero, palpita e freme
caldissima l'onda del sentimento"20.
Egli fondò e diresse il 1 novembre del 1891 il giornale umoristico-satirico Mamma Sarena21 sul
quale pubblicò alcune sue poesie dialettali firmandosi con lo pseudonimo di Fra Barbino e
Stobar.
Con diligente amore, curò la pubblicazione di alcuni scritti inediti paterni, tra cui
l'opera dal titolo "Scrittori ed uomini insigni di Gallipoli". Nel marzo del
189922,
quando fu inaugurata la nuova sede, gli fu conferita la nomina di Direttore ad honorem
della Biblioteca e del Museo: nella sala di lettura, il 22 ottobre 1902, si tolse la vita
con un colpo di rivoltella.23
Durante il periodo estivo, Francesco Leopizzi, per la villeggiatura e per i bagni, da
Parabita, tornava nella sua amata terra natia dove incontrava Ernesto Barba, Bernardo
Ravenna e Nicola Patitari, gli scapestrati amici di cuore, gaudenti e libertini, con i
quali si concedeva ogni genere di divertimento, e galanti avventure amorose. Con essi
visse intensamente il periodo della "belle époque", frequentando il Sans-souci,
l'Eldorado, e i cafés-chantants dove si esibivano procaci e disponibili chanteuses.
L'estate del 1891 fu molto caldo e la temperatura a Gallipoli raggiunse punte molto
elevate nel periodo di ferragosto quando don Checco con questo Sunettu si rivolse al suo
amico e compare Ernesto Barba:
Caddipuli, te lassu pe nu
giurnu
Oju cu bau a la Lizza ccu mme sbracciu,
Oju essu nu picca de stu furnu,
Oju ssuspiru forte comu pacciu.
A mienzu a dde caruse comu
sturnu
Ulia armenu le spese cu nde cacciu;
Canta, Arneste, nu fare lu suturnu
Ca te sta festa la spattavi sacciu!
Cantame la scapece e le
nucedde,
Canta li cupateri e la surbetta,
Canta le mamme cu le fije bedde.
E ci hai furnutu de cantare,
spetta,
Fatte pe cuntu meu na sunatedda
Binchete, cu tte cascia na saietta!
Don Arneste così gli rispose:
Cumpare meu, sta festa è
nzuccarata,
La Festa te le feste se po' dire;
Cci preme ca pardimu na sciurnata,
A li Picciotti nsiemi ndimu scire.
Cci presci, cci scumpij, cci
llagria,
Ci fudda de caruse e carusieddi,
Quante carrozze scarrene la via
E' festa de signuri e povarieddi.
Caddipuli lassamu mmienzu
mmare
Ca l'anima me sentu propriu ssire;
Cumpare meu, dde bedde picciuttare,
Criteme, su tutte de vitire.
La Lizza ci nu biti è meju
mmori
Ca è festa ntica e ndae la ndumanata,
E' fatta de baddizzi e ccu li ndori
E' de tutti sta festa mentuata.
Nc'è piatti, nc'è farsure e
nc'è tajedde
Scapece ccatta-bbindi e cupatari
Nc'è pire, nc'è maluni e nc'è nucedde
Nc'è la ricchezza de li Picciuttari.
Nc'è le bande, li fochi e li
balluni
La pretaca, le messe e la nturciata
Trumbette, sciocarieddi e capasuni
E nc'è la Ssunta d'oru trapuntata.
Cumpare meu, dda mmienzu a
tantu bene
Cc'è sangunazzi puru e mboti cotti,
Ci penzu l'acqua a mbucca mo me vene
Sciamu alla Lizza - Ebbiva li Picciotti!